Ogni volta che chiude un bar io respiro, mi rassereno, mi sento sollevato, ma no, non per i motivi che state immaginando. Mi metto nei panni dei proprietari e penso ai sentimenti contrapposti che li attraversano: lo scoramento da una parte, il senso della sconfitta e del fallimento; dall’altra la liberazione da un lavoro complicato che non ti consente pause o défaillance e che ti costringe a pensarci anche quando dormi.
Ieri mattina leggevo della chiusura di un bar importante in via Libertà (forse in realtà è un passaggio di consegne ma poco importa) e la sorpresa per la notizia inattesa ha presto fatto largo a una sorta di silenziosa solidarietà verso i titolari (che non conosco) di cui ho provato a indossare i panni per un solo istante. Li ho immaginati con gli occhi fissi nel vuoto, come quando ti viene a mancare la vita che è stata tua fino a ieri; e un minuto dopo li ho pensati finalmente felici, sollevati, leggeri, insomma liberi.
Non vorrei che queste poche righe assumessero un tono da melodramma, non è mia intenzione. Ma io ogni volta che vedo un nuovo bar, o quando magari un amico mi dice “sai, vorrei aprire un bar”, penso subito alla meravigliosa inconsapevolezza di cui godono le persone lontane dal commercio e dai tipici affanni del putiàro. Apro un bar e divento ricco: dite la verità, anche voi siete convinti dell’assioma. Apro un bar e divento ricco, salvo poi scoprire che ricco non ci diventi, a meno che non tu faccia parte di un’élite di imprenditori illuminati di cui, certamente per incapacità, non ho l’onore di far parte.
Se devo essere davvero sincero con voi, io i miei momenti di non trascurabile felicità li ho vissuti quando ho avuto la sensazione di essere sul punto di liberarmi del bar e di riappropriarmi della vita che a un certo punto, dalla notte alla mattina, mi è stata scippata. Liberarmi del bar e scoprirmi a fantasticare sulle infinite possibilità che la vita ti offre e che non sono strettamente collegate al cesso sporco, alla fognatura che esplode, alla pioggia che ti allaga il locale, alla sveglia alle quattro del mattino, alla banca che chiama, a tutte quelle cose insomma legate a vita, morte e miracoli di un bar.
Una volta, anni fa, lessi della meravigliosa sensazione di leggerezza che provarono i titolari del celebre Caffè Greco di Roma quando decisero di passare la mano. Parlarono proprio di questo, di un particolare che a voi parrà del tutto insignificante ma che è invece il paradigma, l’esatta fotografia di un mestiere come questo: la felicità per non dovere più sentire le lamentele dei clienti per il bagno sporco o per lo sciacquone che non funziona. Vivere insomma un locale da cliente, con la meravigliosa inconsapevolezza di un utente qualsiasi che beve il suo cappuccino senza avere idea di quello che gli succede attorno (e dietro le quinte) e non con l’ansia perenne del titolare che prende il caffè e continua a guardarsi attorno con la stessa maniacale circospezione di Jason Bourne.
Viva chi riesce a vendere il bar, dimenticandosi finalmente lo sciacquone rotto e godendosi le meravigliose notti di burrasca senza l’incubo dell’acqua che in quello stesso momento gli piove dal tetto del bar. Viva chi ha il coraggio di riprendersi la cosiddetta vita normale, viva i titolari del bar di via Libertà che ce l’hanno fatta. Avete avverato il mio sogno per eccellenza, il sogno a cui non smetto di pensare mentre dormo ma soprattutto da sveglio, e io solo per questo vi ringrazio.