Dopo la rielezione di Mattarella al Quirinale, su Twitter dilaga una tendenza: moriremo democristiani. Perché il presidente della Repubblica è stato un esponente di spicco di quel partito, certo. Ma anche perché – la riprova è un articolo di Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera – a rieleggere Mattarella ha provveduto un establishment politico e, in parte, ideologico (senza voler mancare di rispetto a nessuno) che ha di fatto “epurato” dalla decisione gli schieramenti più estremi, dalla Lega ai Cinque Stelle, costringendoli a mandare giù il rospo e uniformarsi. Ad arrendersi alla sconfitta. A preferire, anche loro, un sistema consolidato e un binomio indissolubile: il tandem Draghi-Mattarella. A non toccare ciò che pazientemente era stato costruito nell’ultimo anno di pandemia.

Molti di quelli che sostengono di averlo profetizzato, mentono. O si arrogano un successo che non gli appartiene. Troppo facile sguazzare nella palude di partiti sempre più divisi e leader sempre più torna contisti, avventurandosi in pronostici. Ma c’è qualcuno che ci ha lavorato fin da subito, da quando a Montecitorio sono comparse le prime schede per il Capo dello Stato, pur avendo lui stesso ribadito che non era il caso. Il Paese, gioco forza, ha dovuto cementarsi sulle sue poche certezze: Mattarella lo era. Draghi lo è rimasto. E’ la prova di forza di un piccolo, grande centro che ha resistito all’assalto populista prima e sovranista poi; che è uscito malconcio delle Politiche del 2018, ma ha saputo conservare se stesso e le proprie convinzioni in uno spicchio di parlamento che durante l’ultima settimana è diventato l’epicentro. Il vero king-maker delle operazioni.

Altro che candidato d’area del centrodestra: bisognava pescare lì, nell’area post-democristiana, per trovare un presidente all’altezza. Pierferdinando Casini, per citarne uno, è rimasto in corsa fino all’ultimo. Mario Draghi è stato la tentazione di molti. Mattarella quella più verosimile, per i modi e l’equilibrio. Un pezzo del Partito Democratico (per la soddisfazione di Enrico Letta), ma anche i vari Renzi, Toti, Brugnaro, Tabacci, Di Maio (per la delusione di Giuseppe Conte), hanno finalizzato un sentimento nazional-popolare che era l’unica exit strategy possibile al pantano del cambiamento. Sembra un ossimoro, ma basta guardare alle strategie di Giuseppi e di Salvini per rendersi conto che il ragionamento regge. Eccome se regge.

Claudio Velardi, fondatore del Riformista e attento osservatore, dice che l’ossatura democristiana “ha risolto bene una situazione di crisi”. Le persone giuste nel posto giusto, e il gioco è fatto. Game, set and match ai ‘maniaci’ della rivoluzione. Viva i gattopardi, per dirla con la Meloni. Ma lo stesso Velardi suggerisce un finale diverso: “Le altre culture politiche sono marginali e ininfluenti. Ma la gestione non basta, si attendono idee”. Bisognerebbe prima capire se essere democristiani corrisponde a uno stato d’animo, o un’innata capacità di problem solving, oppure corrisponde a un tentativo di rilancio dell’azione politica rimasta fin qui solo in potenza. Su questo potremo dibattere in eterno, e passare nel frattempo dalla terza alla quarta repubblica. E’ chiaro che, pure in Sicilia, esistono orientamenti diversi. Ad esempio, c’è quello di Totò Cuffaro: ha fondato la DC nuova prendendosi gli sberleffi dei “vecchi”, perché la storia non si ripete, e dei nuovi, perché la nostalgia non paga. Ha voglia Cuffaro a parlare di giovani e di cambiamento, a sostituire lo storico simbolo dello Scudo con la croce di San Giorgio, a dire gli ideali non passano mai di moda. Quell’acronimo ti marchia a vita.

Basta spostare leggermente l’asse sul centro, mettendo da parte la DC in quanto tale, e il senso del racconto cambia. In parte s’indebolisce, è vero. Ma lascia intravedere spiragli sul futuro. C’è qualcuno – però – che sia in grado di rifondare il grande centro, riportare gli astenuti alle urne, ipotizzare un modo di fare politica, senza che rimanga ingabbiato nei soliti stereotipi, che sia in grado di smaltire le tossine di vent’anni di berlusconismo, di dieci anni di grillismo e di quattro o cinque di salvinismo? Questo qualcuno, esiste? Per il momento no. Esiste solo l’idea di riprovarci, staccandosi dai modelli tradizionali. Proponendone di nuovi: come il modello Draghi. Un purpurrì di partiti che stanno insieme per uno scopo: tentare di sopravvivere dando stabilità all’Italia. Affidandola alle cure di un tecnico come l’ex governatore della Banca d’Italia.

Modello Draghi. Un’espressione (già) consunta che piace molto anche in Sicilia: non è un mistero che il vicerè berlusconiano nell’Isola, Gianfranco Micciché, da mesi tenta di proporre una coalizione spuria, di cui facciano parte quasi tutti (senza la Meloni), per far ripartire questa terra. Micciché crede sia l’unico modo per uscire dalla stagnazione, per superare i veti incrociati e permettere al parlamento, rimasto incastrato nelle pastoie di una legge elettorale inadeguata, di poter lavorare senza contrapposizioni. Per avviare un processo di pacificazione. Un’architettura che non contempla la presenza di Musumeci, figura divisiva persino nello stesso centrodestra, e che invece vorrebbe coinvolgere tutti gli altri: dai leghisti di espressione moderata (quasi tutti, per la verità, in Sicilia), ai grillini più responsabili (Cancelleri ha dovuto rinculare dopo una prima, timida apertura), passando per Forza Italia e Partito Democratico, che dovrebbero costituire il baricentro di questa grande “cosa bianca”.

Ci sarebbe spazio, ovviamente, per Italia Viva, rimasta senza casa da quando Matteo Renzi decise di abbandonare il Pd e la sinistra. E ci sarebbero, come ovvio, i mille cespugli centristi che a Montecitorio hanno recitato la parte del leone: dai popolari di Lupi e Romano, ai coraggiosi di Giovanni Toti (il più presente in tivù), passando per Azione e +Europa, le creature di Calenda e Bonino che già marciano insieme. Una composizione talmente estesa e variopinta che sarebbe impossibile trovare per tutti una poltrona al governo. Anche la costruzione, però, è un bel casino. Totò Cuffaro, con la sua Dc nuova, ne farebbe parte a pieno titolo: se l’ex governatore, però, ha già frenato sull’alleanza con l’Udc di Cesa, che nell’Isola continua a vantare la presenza di tre assessori, uno dei quali potrebbe essere il prossimo sindaco di Palermo (Roberto Lagalla).

L’ipotesi di un modello Draghi applicato all’Isola, in questo momento, non sembra avere molti margini di realizzazione. Punto primo: mancano appena dieci mesi al voto; punto secondo: sarebbe una svolta tale che andrebbe ratificata da Roma e, poi, eventualmente, applicate alle successive elezioni Politiche. Punto terzi: in Sicilia un Draghi non c’è. L’unico nome circolato nelle ultime settimane è quello di Gaetano Micciché, fratello del presidente dell’Ars, che però non sarebbe così allettato dalla politica. Tanto meno dal ruolo di federatore che gli vorrebbero cucire addosso. Un’operazione così audace richiederebbe tempi enormi. Fino ad allora il ‘grande centro’ continuerà a vivere di sigle, di campanilismi, di rivalità. Magari servirà a fare eleggere il Capo dello Stato. Ma non ancora il presidente della Regione.