La leadership di Matteo Salvini, con la proposta della Casellati al Quirinale, ha subito una dura battuta d’arresto. E non perché la Casellati fosse una leghista, ma perché è stato il segretario del Carroccio, dopo aver tessuto una tela impossibile, a tirare fuori dal cilindro un nome divisivo – forse più di Berlusconi – che persino pezzi del centrodestra hanno preferito impallinare. Lo dimostrano la settantina di “franchi tiratori” che con buona pace di Musumeci (che avendovi pagato pegno, desta il voto segreto), hanno decretato le gravi condizioni di salute del centrodestra. La compattezza sbandierata in mattinata, e per tutti questi giorni di follie romane, è venuta clamorosamente meno. Aver “bruciato” la seconda carica dello Stato, una donna che si è prestata alla conta pur sapendo di non farcela, è stato inoltre un pessimo segnale. Ma a gravare sul Capitano è anche la manifesta incapacità di tirare dentro la partita Pd e Movimento 5 Stelle. Mentre la Meloni, che è fuori dalla maggioranza, si sfrega le mani: se ci sarà bisogno di un nuovo leader, è lei l’unica e sola.
Dopo aver buttato a mare il Viminale, direttamente dalla spiaggia del Papeete, ed essere precipitato nei sondaggi, Salvini commette un passo falso pure nel ruolo di kingmaker, ereditato dopo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Riflessi? Parecchi. In chiave nazionale emergono le laceranti tensioni di un centrodestra sfasato, che sta insieme al governo e all’opposizione. Ormai da quattro anni: era successo con l’esecutivo gialloverde, quando il Cav. e Fratelli d’Italia decisero di prenderla alla larga, mentre Salvini decise di votare col M5s il reddito di cittadinanza; e poi con Draghi, che ottenne il sostegno dell’universo mondo, tranne che della Meloni. L’unica che nei sondaggi continua a guadagnare punti e che persino in Sicilia – mai ci fu terra più distante dalle vicende che riguardano il Capo dello Stato – aspira a dare le carte. Ma se davvero Salvini perdesse anche nell’Isola il primato nei sondaggi e nelle operazioni, il centrodestra, che già traballa, rischia di spaccarsi e consegnare il pallino al ‘campo largo’ di sinistra.
E’ un po’ presto per fare calcoli. Ma la Sicilia sarà l’unico punto di contatto fra l’elezione del Capo dello Stato e le prossime Politiche (ammesso che non si vada a elezioni anticipate). Ed è in Sicilia che Salvini vorrebbe piazzare la zampata: un presidente di Regione a chiazze leghiste, magari Nino Minardo, spodestando l’ “infedele” Musumeci. Il quale, dal canto suo, cerca sponda in Giorgia per rimanere a galla, ma la trova soltanto nei suoi collaboratori (da La Russa a Lollobrigida, il padrino politico di Manlio Messina). Con una situazione in progress, e leader così litigiosi, sarà difficile arrivare a un compromesso. In questa fase, poi, è quasi impossibile. La Meloni è ingolosita dall’idea di prendersi il primato dei voti anche nell’Isola e occupare una fetta enorme del parlamento siciliano federandosi – pur avendo la base contro – col movimento del governatore uscente. Che però è nel libro nero dei leghisti, per aver giocato sempre d’anticipo, e senza mai concertare nulla coi partiti.
Ma prima di decidere i candidati, l’elezione del presidente della Repubblica potrebbe riscrivere persino le formazioni iniziali. Ed è per questo che i vari leader non hanno mai voluto pronunciarsi troppo sulle alleanze (persino in chiave Amministrative). Ci aveva provato Gianfranco Micciché, rievocando il ‘modello Draghi’ che, fino a un mesetto fa, tanto bene aveva fatto a palazzo Chigi. Ma col Quirinale, anche il governo dei migliori s’è inceppato. E i partiti che ne fanno parte, tra veti e scaramucce, sembrano sul punto di spingere il Paese verso il burrone elettorale. Un big bang opposto e contrario a quello ipotizzato, ad esempio, dai renziani, che hanno sempre spinto su nuove alchimie per radicarsi sul territorio e spostare il baricentro un po’ più… al centro: a Palermo hanno già candidato Faraone, che sarebbe il catalizzatore perfetto di questo nuovo puzzle. Dovrà attendere anche lui.
Volendoci limitare a una lettura più superficiale, e uscendo fuori da modelli difficilmente ipotizzabili – ce n’è uno, il modello Mattarella, che troverebbe senz’altro molti estimatori – emerge una considerazione: che il centrodestra è spaccato ovunque, a Roma come a Palermo. E che la questione siciliana potrebbe acuire le differenze in maniera ulteriore. In una terra che ha già un paio di elementi divisivi – Musumeci e, in parte, il sindaco di Messina – la polverizzazione dello schieramento giocherebbe solo a favore dell’avversario. Persino di un Crocetta qualunque. “Occupiamoci di un presidente alla volta”, ha detto Micciché. Mentre Musumeci, che a Roma nessuno si fila più di tanto (almeno in tv), ha ricevuto l’ultimo due di picche da Cesa. Udc. Nemmeno loro si dicono pronti a sostenerlo, e prendono tempo. Una fumata nera tira l’altra.