O la CGIL e la UIL hanno ancora una buona capacità di mobilitazione – e già questa sarebbe una notizia positiva perché un sindacato forte è presidio di democrazia – oppure le due organizzazioni hanno posto questioni sensibili e problemi reali che riguardano le pesanti diseguaglianze esistenti nel Paese.
Forse sono vere entrambe le ipotesi. In ogni caso il risultato dello sciopero, malgrado l’adesione nelle fabbriche non sia stata molto elevata, anche in Sicilia è stato apprezzabile. Rimangono abbastanza fondate, tuttavia, le perplessità e le critiche per una manifestazione realizzata durante l’emergenza, con il Covid che torna a diffondersi pericolosamente e con la contemporanea, inquietante presenza di gruppi no vax. Varrebbe la pena, comunque, mettere a confronto la compostezza, la diffusa osservanza delle regole di comportamento proprie di questo tempo da parte dei lavoratori con la violenza neofascista di alcune settimane addietro a Roma e con la sbracata, a volte aggressiva presenza degli stessi no vax in diverse piazze.
Si possono condividere i rilievi ed essere d’accordo con quanti hanno ritenuto che la CGIL e la UIL avrebbero dovuto apprezzare le scelte del governo e proseguire il dialogo, come ha fatto la CISL. A questo proposito si è parlato e scritto di scarso senso di responsabilità, di prova di forza, di populismo di sinistra, di voglia di protagonismo politico. Ci può stare tutto, tranne pretendere che uno sciopero debba avere il consenso della Confindustria, del governo, delle forze che lo sostengono e della destra o che l’emergenza, pur nella sua gravità, imponga la sospensione di tutto ciò che rende viva la democrazia, alla base della quale c’è il conflitto, lo scontro degli interessi e la loro composizione si capisce, non la pacificazione che consolida e rende irreversibili le diseguaglianze ed è propria dei regimi totalitari.
Prendendo per buone, o sforzandomi di prendere per buone polemiche e riserve, condividendo la preoccupazione sull’emergenza sanitaria, comprendendo tutti i benpensanti che in ogni occasione istintivamente si pongono a difesa dei datori di lavoro, tutti “benefattori” che si fanno il mazzo per creare ricchezza e vengono disturbati da incoscienti personaggi che parlano di lavoro, di salari, di giustizia e di diritti – periodo lungo con molti gerundi per una contorsione verbale analoga a quella del PD – mi pare interessante il riferimento al rischio di rottura democratica nel Paese richiamato dai due leader sindacali. Quel rischio esiste e l’indubbio prestigio personale e politico di Draghi non può evitare che possa approfondirsi e diventare irreversibile. Insieme alla insoddisfazione per le scelte del governo, Landini e Bombardieri hanno detto di voler ridurre il distacco tra i cittadini e i palazzi delle istituzioni. Questo è un chiaro proponimento politico. Non toccherebbe in prima battuta al sindacato farsi carico del problema. Come tutte le strutture di rappresentanza e i corpi intermedi, anch’esso, tuttavia, può svolgere un’opera di ricomposizione sociale a condizione che recuperi un rapporto con tutto il mondo del lavoro, si faccia carico di quanti, specialmente tra i giovani, ne sono esclusi, evitando di ridursi alla tutela di occupati e pensionati.
Spetterebbe, è sempre spettato ai partiti il ruolo principale di collegamento tra i cittadini e le istituzioni. Ma è proprio la crisi profonda dei partiti che crea lo spazio per supplenze anche improprie, ancor più quando emerge con evidenza l’incapacità dei populismi di indicare modelli diversi e credibili rispetto alla democrazia rappresentativa e di dare risposte concrete ai problemi della gente.
La crisi della politica investe tutto il Paese, ma ha una dimensione più evidente e devastante nel Sud e in Sicilia, territori, da anni disabitati dalle forze politiche, da sempre dalle grandi imprese e da influenti mezzi di comunicazione, ignorati dallo Stato e occupati da molti dilettanti autoreferenziali che tengono in mano le istituzioni locali non sapendo cosa farsene, tranne che utilizzarle per la propria sopravvivenza. Delle vicende, per così dire, politiche del comune di Palermo e della Regione, del balletto stucchevole delle candidature, ho scritto più di quanto in realtà meriti una scadente partita a scacchi senza un brandello di proposta, di programma, per usare una parola grossa, di visione, roba che latita e pare non serva per ridursi semplicemente a governare il sottosviluppo della nostra terra e per gestire ciò che resta del potere e delle risorse nelle sue istituzioni.
Non ho avuto altrettante occasioni di scrivere della politica nazionale, dei suoi esponenti siciliani, anonimi, assenti, incapaci anche della più fievole denuncia della condizione delle comunità che dovrebbero rappresentare.
Da sempre attento a ciò che capita nel mondo politico, per moltissimi anni di esso partecipe, se mi si chiedesse il nome di tre parlamentari nazionali, sarei in difficoltà. Posso fermarmi a due. Del resto, non ho mai avuto la curiosità di conoscere quelli degli altri, che sono attenti, per la verità, a rimanere coperti, come capitati lì, al Senato e alla Camera, per caso. Non sapendo a cos’erano chiamati, quale sarebbe dovuto essere il loro ruolo, quali iniziative proporre, come tentare di portare a Roma i problemi della loro terra per dire al Parlamento e ai governi che anche la Sicilia è parte della comunità nazionale. Hanno finito per accucciarsi, mantenendo il cosiddetto profilo basso che corrisponde, del resto, a quello di parecchi settori della comunità isolana, ripiegata su se stessa, devitalizzata, rassegnata, incapace di qualsiasi segno di ribellione.
L’atteggiamento di questi esponenti corrisponde al silenzio di parte rilevante del ceto accademico e delle professioni che concorre a gestire l’esistente, appagato del poco o molto che passa il convento, rinunciando ad essere classe dirigente. Resta questo ceto lontano dall’impegno, spesso con la puzza al naso, ma alla politicuzza, quando può, si accosta, con essa traffica, da essa aspetta o riceve benefici. Se avesse orgoglio e capacità, sarebbe davvero classe dirigente, avrebbe l’autorevolezza per mettere alle corde la politica, dal suo seno verrebbe qualcuno di quelli che un tempo si chiamavano maîtres à penser. Invece si accontenta di essere casta e vive, come quella politica, indifferente alla desertificazione culturale, umana e sociale che li circonda.
Può darsi che mi sia distratto, ma dopo il controverso e, a mio parere, pure utile reddito di cittadinanza, in quattro anni non ricordo una sola proposta, una iniziativa apprezzabile, una battaglia vera dei parlamentari siciliani a Roma, di tutti i partiti. La frattura democratica si realizza e si aggrava anche così. E in essa vive acquattato questo ceto inadeguato, per lo più designato dall’alto o frutto di qualche decina di like, un ceto consapevole di aver avuto una bella botta di fortuna, che ha vinto la lotteria senza neppure acquistare il biglietto, che si gode questo irripetibile momento, stando zitto e acquiescente, non acquisendo neppure la gratitudine di quelli che, anche con il loro consenso, controllano le leve del potere e continuano a pensare che il Paese possa fare a meno del Sud e della Sicilia.
Malgrado questa disattenzione permanente, si ottiene il riconoscimento dell’Economist, che è una gran bella soddisfazione e lo sarebbe ancor di più se ad apprezzarlo fossero anche i disoccupati e i giovani siciliani costretti ogni giorno a lasciare la propria terra.