Vuoi vedere che manca una parte della sceneggiatura. E che parte. Come se in un film d’amore tagliassero i baci appassionati. Chissà se l’avvocato Antonio Ingroia era accompagnato dalla scorta quando ha incontrato la sua nuova cliente, Gina Lollobrigida.
Da un paio di mesi, infatti, a Roma valutano se mantenere attiva la protezione solo in terra siciliana. Da Villa San Giovanni in su la sua incolumità non è a rischio per mano mafiosa. Non lo dice un perfido nemico di Ingroia, ma il ministero dell’Interno.
All’appuntamento con l’attrice e sua nuova cliente, l’ex magistrato, ex leader politico ed ex aspirante premier, ex pedina del sottogoverno regionale siciliano, ex candidato a sindaco, potrebbe essersi presentato da solo, in giacca e cravatta, come un avvocato qualunque. Senza offesa per l’ordine a cui si è iscritto, naturalmente, ma la scorta è un tratto distintivo che lo rende diverso dagli altri, una cornice che lo colloca ancora in un contesto che non gli appartiene più. La scorta che lo segue suscita un déjà-vu in tutti coloro che lo incrociano. Ci si ricorda che Ingroia, fino a non molto tempo fa, stava dall’altra parte della barricata. Dalla parte dei pubblici ministeri, e per giunta di coloro che conoscono le verità inconfessabili e lottano contro chi vuole tenerle nascoste. Il fatto che non siano riusciti a portare in aula ciò che serve, le prove, in anni e anni di processi è un dettaglio, un peccatuccio. È accaduto per la Trattativa Stato-mafia, per Calogero Mannino processato per venticinque lunghi anni e per il generale Mario Mori assolto non una ma tre volte. Non è andata come i pubblici ministeri avevano dato per certo. C’è un opinione pubblica che non si nutre di sentenze, però, ma di suggestioni raccontate in televisione, di ricostruzioni farlocche spacciate per verità. Tanto basta per la sopravvivenza.
La vita di Ingroia è un contenitore di esistenze vissute alzando sempre più in alto l’asticella dei colpi di scena. Troppo in alto a volte, tanto da finire sopra le righe e sprofondare nel grottesco. Il cognome di Ingroia per una lunga stagione è stato un marchio di fabbrica che andava parecchio di moda. Si sceglieva il personaggio prima ancora della persona. Come poteva essere credibile, ad esempio, che l’ex presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, lo avesse nominato commissario dell’ex provincia di Trapani, ente già di per sé simbolo di una politica irredimibile, con la pretesa di dare fastidio a Matteo Messina Denaro. No, non poteva essere credibile ed infatti divenne patetico. E che dire della seconda nomina di sottogoverno. Mandarono Ingroia a dirigere una società di servizi informatici e digitali, ma issarono il vessillo della legalità per giustificare la nomina spacciandola per l’ennesima crociata contro il malaffare affidata al comando dell’ex pubblico ministero.
Si resta pubblico ministero per sempre. Ci tiene Ingroia a sottolineare, tutte le volte che può e tutte le volte che viene compulsato, la sua militanza fra gli accusatori, così come tiene alla sua scorta per la quale è in perenne battaglia con chi ha deciso di togliergliela. Nel 2018 il Viminale gli aveva comunicato che dopo ventisette anni non c’erano più esigenze di sicurezza. Era stato il prefetto di Palermo d’intesa con l’Ucis – Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale – a valutare che non esisteva più una “concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce”. Ingroia fece ricorso al Tar del Lazio. Respinto. Andò meglio al Consiglio di Stato. Ricorso accolto. La scorsa estate una pec ha sparigliato le carte. Il ministero ha annunciato la revisione in corso per la revoca della sua scorta su tutto il territorio nazionale esclusa la Sicilia. Non si tratta soltanto di fare i conti in rischi e con la paura – su cui nessun può e deve metter bocca -, c’è il non volersi rassegnare al tramonto di una stagione e di un personaggio, il suo, creato fra aule di giustizia e programmi televisivi. La scorta serve per sentirsi parte di un mondo che non esiste più sia per la scelta di Ingroia di lasciare la magistratura, sia per le condizioni in cui lo Stato ha ridotto Cosa Nostra. I boss di oggi si danno un gran da fare per piazzare bancarelle abusive nelle feste di borgata e selezionare le scalette dei cantanti neomelodici. La mafia succhia la residuale linfa della sua sopravvivenza sguazzando nel malessere sociale, nella mancanza di futuro e lavoro. La stagione dello strapotere mafioso, delle stragi, degli attentati fa parte per fortuna del passato. Lo dicono gli analisti, i magistrati e gli investigatori sul campo quando ripetono che non bisogna mollare per evitare di dare fiato e forza ad un’associazione criminale che arranca.
La mafia va tenuta sotto controllo – il numero dei blitz conferma che è questa la strada battuta –. ma non fa più pura come in passato. Eppure i successi dello Stato, pagati a caro prezzo con il sangue delle vittime, vengono bisbigliati. Se ne parla sottovoce. Non sia mai che venga sbaraccato l’apparato dell’antimafia. Scorte comprese.
Ci sono episodi che spiegano quanto distorto sia il concetto di sicurezza. È accaduto che in occasione delle commemorazioni per la stragi di mafia, a Palermo, sbarcassero decine di auto blindate appena uscite dalla concessionaria. Auto blu nuove di zecca, come un vestito buono da indossare per le passerelle in favore di telecamera. Perché apparire conta più di essere. Fiction e realtà non sono più piani separati. Si intrecciano, si confondono.
E così accade che un giorno Gina Lollobrigida chiami Ingroia. All’attrice, oggi novantaquattrenne, è stato assegnato un amministratore di sostegno dal Tribunale, ma la donna ritiene che sia un modo per privarla del patrimonio. Un bel mucchio di soldi accumulati nel corso di una carriera da diva del cinema. Potenza di Netflix. Lollobrigida ha visto la docuserie sulle vendette dell’antimafia. Da una parte Pino Maniaci, anima della piccola emittente televisiva Telejato, assolto dalla più grave accusa di estorsione e condannato per diffamazione. Dall’altra Silvana Saguto, travolta dallo scandalo delle misure di prevenzione, radiata dalla magistratura e condannata nel processo che ha svelato una delle più grandi imposture dell’antimafia, quella che ruotava attorno alla gestione dei beni confiscati alla mafia e agli imprenditori accusato di avere fatto affari con i boss. I protagonisti sono loro due, ma c’è pure Antonio Ingroia, attore e avvocato difensore di Maniaci con il piglio battagliero del pubblico ministero. Che non ha perduto, seppure indossi una toga diversa. Ingroia recita la parte di se stesso perché, come ha candidamente ammesso, l’avvocato vive anche di presenza scenica. La Lollo lo ha notato e gli è piaciuto la sua vena battagliera. Si sono incontrati, piaciuti e scelti con tanto di video che gira su Youtube.
Netflix è stato l’approdo naturale per uomo che si è sempre mosso con disinvoltura sotto i riflettori, protagonista indiscusso delle manfrine di una certa televisione che ha individuato nel pubblico ministero l’ariete per sfondare l’Auditel. Per anni ha funzionato. Una toga antimafia e le sue mirabolanti rivelazioni hanno tenuto incollati i telespettatori allo schermo. I processi si facevano in Tv spacciando per verità le ipotesi infine crollate al vaglio di giudici dopo che altri giudici ne avevano subito la suggestione. O meglio, il martellamento a colpi di libri, film e talk show. La trama tessuta da Ingroia è stata scandita dai colpi di scena, centellinati come nella migliore narrativa. Innanzitutto la battaglia costituzionale sulle intercettazioni fra Giorgio Napolitano e l’ex presidente del senato Nicola Mancino. Intercettazioni che la stessa Procura di Palermo, in un controsenso tuttora inspiegabile, riteneva ininfluenti eppure mosse una guerra senza precedenti contro il Capo dello Stato. Ingroia lasciò l’inchiesta sulla Trattativa prima che entrasse nel vivo della fase processuale. Fece le valigie per approdare nientepopodimeno che alla Commissione internazionale contro l’Impunità in Guatemala che già a leggerne gli obiettivi veniva difficile orientarsi tanto erano fumosi. Ci rimase un paio di mesi, giusto il tempo di dare un tocco di esotico ai suoi collegamenti televisivi via satellite con le palme a fare da sfondo. Ancora oggi resta il dubbio che fosse tutto vero.
Ingroia ricomparve in carne e ossa in Italia una mattina di dicembre. In un teatro romano si diedero appuntamento per firmare il manifesto elettorale ‘Io ci sto’ e candidarsi. Stare dove? Di sicuro non in Guatemala, da cui tornò in fretta e furia per buona pace dei guatemaltechi, sedotti e abbandonati. Gli sarebbe toccato il rientro in magistratura, ma fare il sostituto ad Aosta gli stava stretto. Un palcoscenico anonimo troppo lontano dal malaffare della criminalità organizzata siciliana. Altro giro, altra corsa. Addio alla toga, lo aspettava la politica. Quella delle campagne elettorali e delle preferenze, mica la politica giudiziaria. Fra rivoluzioni civili, liste del popolo e salti del cavallo ne raccolse poche di preferenze. Stessa cosa nel suo ultimo colpo di teatro, quando si candidò a sindaco di Campobello di Mazara, piccolo comune trapanese. Raccolse il 19 per cento dei voti. Disse che nella terra di Messina Denaro aveva vinto la paura della mafia, la paura dei ricatti, la paura di pagare i prezzi della legalità. Più semplicemente la gente si era stufata delle piroette di Ingroia, le sue trovate avevano smarrito il gusto dell’imprevedibilità, per assumere quello stantio del pane raffermo. Erano scontate come il finale dei film in cui vivono felici e contenti. Si accasò allora nel sottogoverno di un altro rivoluzionario dimenticato, Crocetta, ed è pure incappato nell’incidente di percorso di una condanna per peculato. Siamo in primo grado e gli imputati sono innocenti, Ingroia da ex pm lo sa (?) fino a sentenza definitiva.
Da qualche tempo Ingroia fa l’avvocato. “La mafia non dimentica”, disse la prima volta che gli tolsero la scorta. Ingroia ritiene di vivere una minaccia attuale e bolla come paradossale la decisione di scortarlo solo in Sicilia. Seguiranno ricorsi e controricorsi, c’è da giurarci. Si decida, una volta e per tutte il caso dell’ex pm, che non è l’unico. Tanti altri vivono ancora sotto protezione dello Stato con dispendio di uomini, mezzi e risorse economiche. Sono e saranno sempre soldi ben spesi se c’è da difendere la vita di una persona, ma l’ipotesi di una rivalutazione, da più parti invocata, non è un’eresia. Altrimenti la scorta diventerà come la cabina telefonica rossa di Londra, che ormai esiste solo solo nelle foto. Una cornice dell’ultimo quadro dell’antimafia