E’ cinico dirlo, ma la morte di Maryam Nuri Mohamed Amin, che tutti chiamano Baran, annegata nel canale della Manica assieme ad una ventina di altri disperati mentre su un barcone cercavano di approdare in Inghilterra, forse cambierà la percezione e l’iconografia del dramma dell’immigrazione dal sud al nord del mondo.
Perché noi gli uomini e le donne che cercano una vita migliore in Europa li abbiamo sempre visti laceri, abbrutiti dal viaggio, sovente di loro abbiamo solo l’immagine da morti (come il piccolo sulla spiaggia turca di qualche tempo fa). Oggi li vediamo anche zombie congelati, nei boschi fra Bielorussia e Polonia cacciati dal dittatore Lukashenko e rifiutati dalla nostra umanissima Unione Europea.
Baran no. Le foto che abbiamo di lei, quelle che abbiamo visto su giornali, siti e in tv sono quelle di una ragazza solare, vestita come noi, con attento look, pettinatura, manicure, allegra, con il suo fidanzato elegantissimo. Baran è la nostra vicina di casa, la nostra amica su facebook, la nostra collega di lavoro. Non somiglia per niente a quelli che vediamo scendere dalle navi delle ONG, coperti con quei manti che sembrano d’alluminio, che trasudano disperazione e povertà. Non somiglia per niente agli zombie di queste settimane in mezzo alla neve.
Baran è nostra sorella che chattava col fidanzato, magari con la felpa firmata e french sulle unghie, che stava dentro alla tragedia epocale dell’immigrazione clandestina che nel suo caso sta dentro anche la tragedia del popolo curdo, senza patria, senza casa, con soli nemici al mondo.
La morte sui barconi non è più lontana da noi, non è più degli altri. E’ della ragazza che incontriamo sulla metropolitana a Roma, quella che ci serve alla banco salumi del supermercato, quella che lavora e studia per pagarsi l’università. Baran ci ha portato la morte in casa. La sua morte è anche un po’ la nostra morte. La morte della nostra ipocrisia.
(tratto da Strummerleaks, il blog di Toi Bianca)