Nella lotta alla mafia, per il palermitano Giuseppe Governale, generale dell’arma dei Carabinieri, si è perso troppo tempo. E’ da questa convinzione, documentata dal racconto e accompagnata da un rimpianto malcelato, che prende vita ‘Sapevamo già tutto’. Nel libro edito da Solferino, 352 pagine, l’ex direttore della Dia e comandante del Ros, descrive alcuni approcci investigativi che, già dalla fine dell’Ottocento, un secolo prima delle rivelazioni di Buscetta a Giovanni Falcone, delineano con chiarezza i tratti salienti dell’organizzazione.
Ad aprire la riflessione di Governale, e a rafforzare la convinzione che “dovevamo combatterla prima”, è l’iniziativa che nel 1898 vide protagonista il questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi. Nei trentuno rapporti giudiziari consegnati al procuratore del Re, emerge la presenza di otto gruppi (lo stesso numero dei mandamenti di oggi) e delle numerose sezioni (le cosiddette famiglie) in cui si ramifica l’organizzazione mafiosa palermitana. Ma è quasi stupefacente, andando a ritroso, intravedere i legami fra il sistema di potere e il ‘mondo di mezzo’. Governale, affidandosi ad ampi dossier, analizza in profondità le tacite compromissioni con “quelli che contano”. Dai politici del tempo alle grandi famiglie nobiliari: nessuno era al riparo dal fascino criminale.
Ma un altro documento cui si affida l’autore è quello redatto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1971, dopo l’assassinio del procuratore della Repubblica Piero Scaglione. Rappresenta la prosecuzione de ‘Il giorno della civetta’ di Leonardo Sciascia. L’opera che aveva spiegato per la prima volta alla Sicilia e ai siciliani, e all’Italia intera, il sentiment di una mafia diversa. Che abbandona la coppola e la lupara per dedicarsi agli appalti, alla droga, ai traffici loschi, alle infiltrazioni e al soggiogamento delle amministrazioni locali. Ma Dalla Chiesa, oltre a sublimare la penna dello scrittore di Racalmuto, ricalca Sangiorgi. E restituisce la dannazione di un tempo vuoto, quello fra i due rapporti giudiziari, che il Paese e la sua coscienza critica non sono riusciti a colmare.
Perché al di là degli arresti eccellenti, e di un’attività investigativa che solo negli ultimi trent’anni ha registrato un evidente salto di qualità, rimane un vulnus. “Le organizzazioni criminali – scrive lucidamente Governale – da sempre si sono insinuate nelle pieghe dell’inerzia, nei vuoti del lassismo, sfruttando la mentalità dello “zero a zero”, di chi rifugge l’etica della responsabilità, dell’assunzione delle decisioni che gli competono, pensa che le pratiche si possano risolvere da sole, che determinati “bubboni” nei reparti, negli uffici, possano dissolversi come d’incanto, mentre non di rado si trasformano in metastasi”. Alla fase dell’analisi subentra, poi, quella della proposta. Con un paragone più che mai attuale: “Il virus si combatte con il distanziamento sociale, cioè evitando l’esposizione, e con il vaccino, tenendo presenti le possibili mutazioni. Anche la mafia si guerreggia in maniera analoga, considerando che continua a rigenerarsi e a mutare”. E più avanti Governale scrive: “La parte militare della struttura è certamente indebolita, ma la mafia non è un’organizzazione criminale e basta. Altrimenti l’avremmo già sconfitta. Si sarebbe arresa. Sappiamo che non è così”. Quel tempo perso non gioca a favore dello Stato. E chissà mai se potrà essere recuperato.