In Sicilia abbiamo troppe categorie rimaste senza rappresentanza. C’è una classe imprenditoriale decimata dalla piovra dell’antimafia che aggredisce preventivamente le aziende e i patrimoni, infischiandosene delle sentenza di assoluzione e mandando in malora formule imprenditoriali vincenti e posti di lavoro. Tanti posti di lavoro. C’è una classe lavoratrice fantasma perché un contratto non si trova e a volte è meglio ‘la disoccupazione’ e Dio ce ne scanzi dal reddito di cittadinanza. C’è un esodo di giovani agghiacciante, ma non muovendosi sui barconi scortati da ong non fa notizia, non è pop. C’è un esercito di precari che, stante la beltà del posto fisso, il mutuo non l’ottiene perché non ha garanzie e non resta che attaccarsi alla gonna di mammà finché ce n’è. C’è un popolo di agricoltori mazziato da burocrazia, ritardi nei pagamenti, disattenzione, ignoranza del sapere agrario e del ruolo del contadino come custode del territorio. Ogni tanto qualcuno si suicida, ma “è depressione”.
C’è però una cosa più grave di tutte ed è l’errore nell’identificazione del nemico. In questo sostrato culturale e reale, infatti, fioccano come ginestre nei bordi delle trazzere battaglie anti-Nord culla dei populistii, cavalcate dai politicanti con pochi argomenti, ansiosi di inserirsi nella chiacchiera nazionale e dagli attivisti figlioletti delle coop, che ovviamente di solidarietà ci campano. C’è una certa aggressività anti-settentrione che scimmiotta specularmente l’antisuddismo del fu leader in canottiera.
L’input polemico è forse di orgoglio identitario? Di certo i nostri partigiani non se la presero quando Giorgio Bocca descrisse Palermo come uno zàccano maleodorante abitato da un’«umanità repellente» e a chiedere il ritiro del libro indelicato davanti alla Feltrinelli panormita furono in pochi. Forse perché Facebook non andava ancora tanto forte, forse perché le istanze identitarie assumono i contorni della posa e servono soprattutto per diventare famosi. Non ci si crede mai del tutto veramente.
Mentre le lighe non dormono mai, autonomisti, indipendentisti, sicilianisti, siciliofili si assopiscono da anni alla controra. Se coscienza collettiva patriota in tal senso esiste, occorre chiedersi dove planava questo esercito mentre si faceva carta straccia delle prerogative statutarie, mentre si disattivava l’Alta Corte per la Sicilia, mentre restavano in piedi meccanismi mortali allo sviluppo economico siciliano, come il controllo preventivo sulle leggi operato dal Commissario dello Stato, mandato in pensione troppo tardi dalla Corte Costituzionale, e in aggiunta quello successivo di questa – unicum italiano tutto siciliota – accompagnato dal potere del presidente, apparentemente temperante l’ingiustizia, ma molto sconveniente, di emanare leggi ‘bonificate’ dalle clausole anticostituzionali, quindi spesso monche e inefficaci, se non addirittura minanti la ratio iniziale del legislatore. È il passato, vero, ma la sensazione è che, ogni volta, per salvare una riga di Statuto si sia massacrata un’isola.
Il ‘padanismo’, per quanto a tratti folkloristico, ha invece una storia ultra-trentennale costruita su fatti e atti rilevanti, rivendicazioni in diritto, plebisciti e sgomitate a Roma nelle stanze dei bottoni, squadre di giuristi e avvocati al suo servizio, supporto politico trasversale, perché spazi più grandi sono comodi a tutti. A parte qualche starnuto, tutto ciò è assente nella storia siciliana dal 1947, sicché si è persa l’occasione repubblicana, ma anche quella indipendentista. Non esiste un corrispettivo qualitativo e quantitativo simile perché l’animus siciliano è per la non assimilazione di nessun potere e la strategia politica è di scuderia e piazzamento. Questo lo facciamo benissimo e, soprattutto, ai nostri danni.
La coscienza collettiva siciliana, almeno quella social, oggi si esprime ad ampia maggioranza contro un nuovo nemico – il fascioleghismo – ma a meno che non si voglia credere che il vero problema della Sicilia siano Salvini, il tdrafficu e l’Etna, forse due domande in più sui bisogni dei siciliani e gli errori storici occorre farsele, senza temere di essere ‘populisti’.
Approntare questi ragionamenti è complicatissimo. In primis, dinanzi al pueblo di sinistra e la sua ansia di ribadire all’infinito quanto la Sicilia sia cerniera dei popoli, cooperante, centro del mundo, dinanzi ad un ottimismo dogmatico in ragione nel quale se cambi la prospettiva stai offendendo la matdre. Quasi meglio il pessimismo gattopardesco. L’offesa non è meno definitiva a destra dove l’opinione dissenziente è sempre poco prudente e rischia di serrare la strata all’avvenire e sia mai. Dura constatare che c’è molta più sensatezza nel vituperato Borghezio nella visione delle cose che contano che in molti nostri esponenti pro-sud anti-polenta formalmente ineccepibili e praticamente deficitari. Le belle idee non si mangiano.
Le lighe sono le uniche realtà presenti tra i disperati del nord che sono fratelli dei disperati del sud. Esse entrano nei capannoni e frequentano i campi e le case ascoltando i bisogni concreti di persone reali e non di categorie astratte e impalpabili. Non sempre danno le risposte giuste, ma conoscono le domande.
In Sicilia, invece, viviamo una crisi di rappresentanza senza precedenti e molta solitudine. I problemi della gente non sono i problemi della politica. Interi territori sono divenuti terra di nessuno, intere categorie inascoltate, abbandonate a loro stesse dai partiti e dai movimenti, tutti protesi alla cosmesi ideologica per essere abilitati a Roma, tutti assorti nella cura di una maschera politicamente corretta che serve oltre lo Stretto, e asciutti di dove stiano di casa il bisogno, il disagio, l’irrisolto, l’incompiuto.
È una terra bellissima, ma di figli infedeli che gridano “al lupo! Al lupo”, mentre il lupo se li mangia.