Per quel poco che valgono gli insegnamenti in politica – presi come sono, i partiti, dallo sperimentare laboratori e modelli fra i più variegati – nei risultati dell’Amministrative di ieri non sfugga un aspetto: la sconfitta di Matteo Salvini al Nord. Umiliante a Milano, dove l’uscente Beppe Sala ha quasi doppiato il medico Luca Bernardo al primo turno, e la Lega ha scavallato di poco la doppia cifra nel voto di lista; inattesa a Torino dove, pur essendosi assicurato il ballottaggio, il candidato del centrodestra (Paolo Damilano) ha chiuso alle spalle di Stefano Lo Russo (centrosinistra). La coalizione con la Meloni e Forza Italia regge soltanto a Trieste, dove l’uscente Di Piazza dovrà comunque passare dalle insidie dello showdown, fra un paio di settimane.

Per il resto, il blackout del centrodestra grida vendetta: lo schieramento che a livello nazionale vanta i primi due partiti – FdI e Lega – sul territorio viene schiaffeggiato ovunque, tranne a Roma. “Occorre essere più concreti sulla vita reale – ha detto Matteo Salvini, facendo mea culpa -. Non possiamo perdere tempo su vicende private. Sui candidati siamo arrivati tardi. Abbiamo perso per demeriti nostri”. Soprattutto in quel Nord produttivo che non sembra più la casa del Carroccio. Né quella di Salvini, che qui ha perso l’inerzia propulsiva a favore delle spinte più governiste provenienti da Zaia e Giorgetti, e adesso sta concentrando le sue mire espansionistiche al Sud, in Sicilia.

Presa la Calabria, dove il prossimo governatore sarà il forzista Mario Occhiuto (qui la sinistra si è disintegrata con tre differenti proposte), l’Isola effettivamente resta l’ultima casella libera per mettere in atto il piano dell’ex Ministro dell’Interno. Il quale, nelle recenti tornate elettorali, è rimasto a bocca asciutta in Puglia e in Campania, dove aveva ceduto i candidati – Fitto e Caldoro – agli alleati. Mentre altrove, in Basilicata, Molise, Abruzzo e Marche, vede al timone i suoi competitor. Detto questo, però, cade il vecchio assioma che il centrodestra unito vince ovunque: alle Amministrative non succede. Clamoroso il k.o. a Napoli, dove l’ex Ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi (sostenuto dal “campo largo” con Pd e M5s), ha schiantato il magistrato Catello Maresca. Un risultato reso ancora più cupo dall’intramontabile Antonio Bassolino, che porta a casa il 10 per cento col sostegno di alcune liste civiche. Nella Capitale, dove la figura del candidato sindaco (un civico) destava parecchie perplessità, invece si è portato a casa il massimo risultato: il ballottaggio.

E’ inevitabile che il governo Draghi, con FdI all’opposizione, lo scenario della pandemia, e l’apertura di una competizione sempre più serrata per la leadership nel centrodestra (che vede vincente la Meloni quasi ovunque), abbia acuito le lacerazioni dello schieramento quasi orfano di Berlusconi. L’incidente diplomatico di Milano, alla chiusura della campagna elettorale di Bernardo; la delegittimazione di Michetti da parte del ministro Giorgetti; le scorribande per le nomine in Rai, che avevano fatto sbottare la Meloni, sono alcuni degli episodi che dimostrano le infiltrazioni in un meccanismo dalle grandi potenzialità (almeno sulla carta), il cui periodo di rodaggio però sarà più lungo del previsto. Almeno un altro semestre, fino alle elezioni del Capo dello Stato. O, magari, alla decisione di chi candidare in Sicilia: se Nello Musumeci, a conferma di cinque anni di governo non esattamente memorabili (significherebbe il via libera “sofferto” di Giorgia Meloni); o Nino Minardo, il prescelto di Salvini, nella speranza di cambiare rotta e ristabilire le gerarchie. E’ ancora presto, ma questo quadro in evoluzione non va ignorato. L’unità solo-sulla-carta non porta lontano. E in Sicilia, nonostante l’incontro di ieri fra il presidente della Regione e lo stesso Minardo, le divisioni restano. Per poco non è arrivata una crisi di governo.

Ci sono anche altri aspetti da considerare, e che potrebbero fare scuola. Il Pd segna enormi progressi al Nord. Mentre, come dimostra il risultato in alcune città, specie Milano e Torino (reduce da cinque anni di Appendino), il Movimento 5 Stelle – da solo – colleziona figuracce in serie. L’alleanza con la sinistra, al contrario, è foriera di soddisfazioni: due vittorie schiaccianti, a Napoli e Bologna, consentiranno ai grillini, con percentuali comunque marginali, di entrare in palazzi mai esplorati prima. Mentre a Roma servirà un patto con Gualtieri al secondo turno per non dilapidare i cinque anni di Virginia Raggi, sconfitta con onore.

In Sicilia questo problema non si riproporrà: il dialogo è avviatissimo a livello regionale, un po’ meno a Palermo città, dove si vota nella prossima primavera e la presenza dell’uscente Leoluca Orlando rappresenta un freno inibitore per tutti. Spacchettarsi di fronte all’elettorato significherebbe (quasi certamente) consegnare il Comune al centrodestra, come non avviene dai tempi di Cammarata. Lo scatto in avanti di Salvini, anche in questo caso, rischia di sparigliare le carte: “Il centrodestra – ha detto il leader del Carroccio in merito alle prossime Amministrative – ha il dovere di individuare i suoi candidati il prima possibile, entro novembre, per avere 5-6 mesi di tempo per spiegare la nostra idea di buon governo”. L’esperienza giallorossa, che trae spunto dal secondo governo Conte, è diventata una prassi consolidata in tutto lo Stivale. E spesso risulta l’unica contromossa possibile, quasi obbligata, per resistere all’avanzata degli avversari. Ma va coltivata in fretta.

Qualche indicazione in più potrebbe arrivare dal voto di domenica prossima, con 42 comuni siciliani impegnati (ma solo in 13 si vota col proporzionale). E’ una tornata che non dirà molto sul peso dei singoli partiti (prevalgono le liste civiche). Ma che, per una mera somma algebrica, potrebbe confermare le legittime ambizioni del “campo largo”, specie nelle città più importanti (Caltagirone e Adrano). Dopo l’antipasto dello scorso anno a Termini Imerese, aggiungere altri tasselli sarebbe la benedizione finale su un percorso già avviato. Mercoledì atterrerà in Sicilia, per tre giorni di campagna elettorale, anche l’ex premier Giuseppe Conte, oggi capo politico dei grillini. Da lui ci si aspetta al più presto la nomina di un referente regionale del M5s, che permetta anche al Pd di avere un interlocutore certo. Con cui decidere – fra l’altro – il prossimo candidato per palazzo d’Orleans, e magari il metodo (le primarie?). L’esperienza di ieri insegna che la tempistica non è banale. E che le lunghe rincorse si pagano a caro prezzo.