Andiamo in ordine sparso e dovremmo, piuttosto, tornare a praticare il senso dell’appartenenza. Per ridare un senso a questi anni frenetici e svuotati di significati validi per l’oggi e per il domani. Per evitare che tutto si consumi a tempo di social, dove tutto rimane ancorato alla superficie. Alle prime pagine di un libro che mai nessuno arriva a finire. Quella superficie che lascia appena intravedere la schiuma, delle idee, in un mordi e fuggi implacabile e provvisorio, perché la provvisorietà, dei sentimenti, delle idee, delle motivazioni che spingono all’azione, è il mantra e il dramma della nostra contemporaneità. Camminiamo inconsapevoli sul ciglio della strada, aspettando devoti che il Torquemada di turno decida del destino di questa fila indiana che le scelte vengano prese sulle nostre teste distratte dal chiacchiericcio sterile intorno a qualche questione di vita o di morte da consumare via social nello spazio di una mattino.
Bisognerebbe ripartire dall’appartenenza a un luogo, ad esempio. Ripartire dai posti che ci videro bambini, inconsapevoli e felici, per ritrovare il senso di noi stessi. Aprire una parentesi, andare indietro con la mente agli anni in cui eravamo bambini, guardare con occhi di bambini. Rivedere la strada del paese, o del quartiere, che rappresentava il centro e i confini del nostro mondo; le basole nere di pietra lavica che le lastricavano, come la via Etnea di Catania, nel percorso che parte dall’arco di porta Uzeda per dipanarsi verso la Montagna che tutto domina; ai pisoli sui quali da piccoli ci fermavamo per riposare tra un gioco ed un altro mentre i nonni parlavano tra di loro, cercando sull’uscio scampoli di fresco nella calura della torrida estate siciliana; ricordare il profumo di certi odori che vagano liberi nell’aria raccontando di pranzi pesanti e sonnolenze, di convivialità ricercata ed esasperata; di partite a pallone improvvisate negli oratori, nei freddi pomeriggi invernali, con le scarpe nuove comprate per il giorno di festa, le zuffe tra bambini senza che i grandi si permettessero di intervenire; il primo corteggiamento, che doveva essere fatto per forza guardandosi negli occhi, senza la possibilità di nascondersi dietro lo schermo di un telefono; dire no, mi dispiace, oppure addio, sentendo il peso della delusione che si stava infliggendo all’altro, perché solo avvertendone il peso era possibile fare la scelta, non giusta o sbagliata, ma nella maniera giusta o sbagliata. Scegliendo, però.
Bisognerebbe avere la forza di tornare appartenere ad un modo di essere, ad un modo di sentire le cose tramandato di padre in figlio, germogliato da un paesaggio che ne ha forgiato carattere è destino. Appartenere ad una indolenza che lascia tutto appassire, per poi esplodere in vampate incontenibili di creatività, genio e follia; appartenere a questa alternanza di stati d’animo, che si susseguono come le conseguenze di una eruzione vulcanica, qui sciara, lì pineta incontaminata.
Bisognerebbe tornare a sentire l’ebbrezza dello scuro di certe notti senza luna, indistinguibile dallo scuro lavico delle strade, senza lanterne a rischiarare le viste, per non smettere di andare alla ricerca della luce.
Bisognerebbe ritornare alla sensazione di appartenere a qualcosa. Fosse pure la sensazione che nulla sia sotto il nostro controllo e tutto affidato alla mercé del caso e del destino. Ad un tiro di dadi maldestro, o ad una mano di poker conclusa con un bluff ben riuscito. Come quella che ci ha dato in sorte di nascere in questo terra benedetta da Dio e trascurata dai suoi abitanti. Appartenere a questa comunità, essere siciliano. Disperatamente, irrimediabilmente. Fortunatamente.