Suolo pubblico.
Discreta ma decisa la signora mi chiama e mi fa: “Deve farmi un favore, qui lei non ci deve posteggiare più”. “Certo, la strada è un po’ stretta”, rifletto. “No, non tanto perché la strada è stretta e le macchine mi sfilano davanti la persiana ma perché io qui davanti ci devo stendere la biancheria”. D’altronde si chiama suolo pubblico, altrimenti pubblico non si chiamerebbe. E poi ’u gazebo abusivo dello street food sì e ’u stendino ra signura no?
Psss psss.
“Psss psss”, mi chiama il signore dal balcone del suo primo piano mentre passeggio col cane. Alzo lo sguardo e lui mi fa di no con il ditino della manina come a dire “portalo a fare pipì lontano da qui”. “Non si preoccupi”, lo tranquillizzo allontanando col guinzaglio l’animale. “E poi, nei casi urgenti ho questi” e mi esibisco nel patetico numero di repertorio di quello che esce rassicurante dalla tasca dei pantaloni i sacchetti raccoglicacca (non ho mai capito se capiscano cosa siano visto che i loro cani li fanno cacare unnegghiè senza raccogliere alcunchè). Il tempo di allontanare di un nulla lo sguardo, e sotto il balcone successivo, sempre suo, a 3 metri di distanza, una piramide di sacchetti della munnizza s’innalza a 50 centimetri dalla balàta. E il feto non si può descrivere.
Le urla, gli strepiti.
Urla, strepita, si ritrae come un ossessa, tanto da attirare l’attenzione dei passanti. Capisco l’incontro casuale e ravvicinato con i miei due cani ma li ho al guinzaglio (stretto) e sono placidi come mai nonostante le urla, gli strepiti, un immotivato tremore che sembra una possessione. Avessi urlato, strepitato, ti fossi dimenata come un animale selvaggio allora, quando le tue bambine subivano strane attenzioni domestiche, sarebbe stato per una causa giusta. E invece niente urla e strepiti, allora, e te le hanno tolte. Non ho nulla contro il colore della tua pelle, la tua etnia, il tuo credo e la tua cultura nonostante ti abbia insegnato da piccola la regola della sottomissione. Io ti disprezzo come essere umano.
La lezione dei martiri.
Il dodicenne (circa) al suo coetaneo: “Ci ha diri a to frati ca l’havi a finìri, vasinnò rici me patri ca vi spunta a casa e a iddu ci spara ’mmucca”. Ore 11 del mattino, ieri l’altro, Piazza del Noviziato. A due passi da lì, da quei nomi scritti con grandi lettere in metallo sul marmo, due passi da Palazzo di Giustizia.
China Trolley.
Sospetto che il cinese (magari sarà laotiano, cambogiano, vietnamita: comunque volto e fisico di dignitosa magrezza) che ripara vecchissime e malconce valigie all’imbrunire nella traversina appena girato l’angolo (tra le strade più sporche del globo che definirla favela è una promozione socio-ambientale) probabilmente è ospite in una stanza-ricovero senza servizi. Passando di prima mattina, l’ho visto infatti – libero da scalpelli, martelli, cacciavite, cerniere lampo, colle – mentre si lavava i denti con lo spazzolino davanti all’uscio sputando sul marciapiedi (si fa per dire) e praticava abluzioni ascellari “cu bucalièddu”.