Una delle prime riflessioni dal momento in cui si è appreso che Luca Sammartino fosse a un passo dall’accordo con la Lega, è che la coalizione di centrodestra spostasse il proprio baricentro un po’ più in là rispetto a Musumeci. Le cui certezze per una ricandidatura – adesso – vacillano. C’è un fatto meritevole di attenzione: che Matteo Salvini punta fortemente sull’adesione del deputato etneo, nonostante un paio di processi per corruzione elettorale pendano sulla sua testa. Della serie: il rischio vale la candela. E questo, al netto dei passaggi ufficiali, rivela la strategia: un rafforzamento del Carroccio in chiave regionale e locale, dato che Catania è sempre stato un fortino conteso fra l’ex renziano e il presidente della Regione.
Che non si amano lo sanno anche i muri, ma adesso la competizione “interna” potrebbe diventare selvaggia. Basta fare due più due per avere il quadro chiaro: con l’ultimo acquisto Salvini accresce la propria area di influenza all’interno della coalizione e, di fatto, legittima l’aspirazione della Lega a poter indicare il prossimo candidato a palazzo d’Orleans. La gestione di Musumeci, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, ha lasciato molto a desiderare. E al netto delle esternazioni pubbliche, del vanto della rettitudine ecc ecc., Salvini non ha alcuna fiducia nei confronti di Nello, che mesi fa ha lanciato un messaggio forte anche sul tema dei migranti, tacciando di ipocrisia chi parla di ricollocamenti. Questo ha spiazzato gli alleati. I rapporti politici si erano già incrinati: dopo l’invito a federarsi dell’ex Ministro, a cui il presidente della Regione ha riposto picche, l’establishment del Carroccio ha innalzato una barriera insormontabile nei confronti di Diventerà Bellissima. L’assessore Razza, finché si occupava di politica (ora, dice lui, si occupa soltanto di sanità), ha provato a fare breccia nell’animo duro e rancoroso della Lega. Non c’è riuscito, nonostante i buoni rapporti con Nino Minardo, segretario regionale del Carroccio.
Da qui la controffensiva salviniana: per recidere i rapporti con il presidente della Regione e con questa esperienza di governo, bisogna mettere sul piatto la fanteria pesante. Di per sé il lavoro di Minardo ha provveduto alla creazione di una classe dirigente, molto più spostata al centro, capace di catalizzare voti. L’innesto di Sammartino, però, è la ciliegina sulla torta. E’ chiaro chi darà le carte al prossimo giro. Musumeci dovrà lavorare duramente per trovare un pertugio nel cuore del Capitano: una delle poche chance per ambire al secondo mandato, è riaccreditarsi presso di lui. Oltre a riaprire il dialogo con i partiti, che di recente ha accusato di essere un intralcio: con questi bisogna essere più flessibili, condividere le scelte amministrative e le nomine di sottogoverno. C’è un bel lavoretto da fare per riportare gli alleati della propria parte, per convincerli a sposare la sua causa in vista di un’altra legislatura. Rinunciare a un presidente in carica – questo è noto anche agli sciocchi – è un segnale devastante, equivale a una bocciatura su tutta la linea. Ma nelle ultime settimane, molti sembrano disposti a correre il rischio anziché inchinarsi all’uomo solo al comando.
Il caso più emblematico è rappresentato da Fratelli d’Italia. Dopo gli incidenti diplomatici con Giorgia Meloni e Raffaele Stancanelli, quasi nessuno è disposto a firmare una cambiale in bianco a Musumeci. Che non è stato invitato, di recente, al convegno sulle Infrastrutture organizzato a Taormina dallo stesso Stancanelli. Il parlamentare europeo, che era stato un socio fondatore di Diventerà Bellissima, alla vigilia dell’appuntamento aveva riferito che “il governo deve pensare a lavorare con l’aiuto delle forze politiche che hanno contribuito alla vittoria elettorale. Alla fine del mandato vedremo com’è possibile mantenere la coalizione integra”. E già in passato aveva fornito l’identikit del prossimo presidente, che non sembra corrispondere a quello attuale: A questa terra non serve “l’uomo solo al comando”, ma un leader che abbia rispetto delle tante sensibilità e delle diverse anime della coalizione, che riesca a coordinare, a parlare ed essere leale con tutti”. Stancanelli non si è mai speso, e probabilmente mai lo farà, per proporre all’ex “socio” un altro giro di valzer. Né lo farà Giorgia Meloni, che dopo aver ricevuto freddamente il governatore alla presenza del suo libro, avergli lanciato qualche frecciatina (“Eravamo inchiodati al 4%, guardateci ora), ha snobbato le domande sulla sua ricandidatura: “Non è ancora tempo”.
Anche Saverio Romano, all’indomani della sparata di Musumeci allo Spasimo contro i partiti, aveva avuto da ridire: “Senza i partiti non può esservi alcuna democrazia. È una cosa che tutti dovrebbero sapere ma, evidentemente, taluni fingono di ignorarlo. Che i partiti siano in crisi non vuol dire che se ne possa fare a meno. L’alternativa ai partiti è l’uomo solo al comando, la lotta del potere per il potere. È talmente importante la loro funzione che godono di un riconoscimento costituzionale”. Già in passato Romano si era iscritto alla lista degli ‘scontenti’ per la scarsa considerazione di Musumeci nei confronti del suo Cantiere Popolare. Sebbene, nell’area del grande centro, il governatore vanti alcuni amici storici: come l’Udc di Decio Terrana, che anche di recente ha battuto il tasto del mandato bis. Sulla stessa lunghezza d’onda Cordaro e Lagalla, mentre Totò Cuffaro ha già espresso altri desiderata: “Mi pare sia di destra. Io penso che sia meglio puntare su un moderato – ha detto il segretario regionale della Democrazia Cristiana – Nel 2017 l’ho votato e fatto votare. Dopo di che lui non ha voluto avere alcun rapporto politico con me. Me ne sono fatto da tempo una ragione”, ha detto a proposito dei rapporti interpersonali.
Da decifrare il comportamento di Italia Viva, o di quel che ne rimane dopo il saluto di Sammartino: si tratta di una forza politica, sostenuta soprattutto dagli ex Sicilia Futura, che per un bel pezzo della legislatura è rimasta fermamente all’opposizione, ma che adesso potrebbe riposizionarsi altrove. Anche se Faraone, colui che di solito prende le decisioni, ha confermato di trovarsi dall’altra parte della barricata. Chi ha già deciso cosa fare – cioè la guerra a Musumeci – è Cateno De Luca: il sindaco di Messina, che era stato eletto all’Ars nella coalizione di centrodestra prima di fare i bagagli per palazzo Zanca, vale un bel 15% nei sondaggi. Magari non vincerà, ma di certo può farlo perdere.
Merita un ragionamento a parte Forza Italia. All’interno del partito azzurro ci sono un paio di sostenitori chiari: l’assessore Marco Falcone, che non vede come sia possibile un’alternativa; e il vicepresidente Gaetano Armao, che rimane indigesto al resto della squadra (ora che la compagna Giusi Bartolozzi, alla Camera, si è iscritta al gruppo Misto, la sua “influenza” rischia il declino). E poi c’è il capitolo Micciché, l’attuale commissario regionale. Musumeci e Miccichè si sono inseguiti (e scontrati) a lungo nel corso della legislatura. Non sempre, anzi quasi mai, le scelte del primo hanno convinto il secondo. Spesso lo hanno fatto inalberare: l’atteggiamento offensivo nei confronti del parlamento siciliano, il mancato feedback sul turnover di alcuni assessori in quota azzurra, la scelta di troppi catanesi per le posizioni di vertice del sottogoverno sono state solo alcune delle ‘segnalazioni’ inoltrate alla stampa dal presidente dell’Ars. Che fino a poco tempo fa ha ribadito che sì, il presidente ha diritto di porre la questione della sua candidatura, “ma qualche problema c’è”. Ad aprile si era spinto oltre: “Sta facendo capire in tutte le maniere che non lo vuole fare più. Dobbiamo cercare un nome forte, che abbia davvero voglia di fare il presidente della Regione”.
In questa fase, però, Musumeci ha fatto capire l’esatto contrario. Ha lavorato a una kermesse, celebrata il 26 giugno allo Spasimo di Palermo, per sottolineare i grandi progressi del suo governo (delle altre, previste in tutta l’Isola, non si è più avuta notizia). Non doveva essere l’avvio della campagna elettorale, ma lo è diventata: “Sono arrivato a palazzo d’Orleans e ho trovato una Regione devastata – ha detto quella volta -. Ho dovuto scalare le rocce, io e i miei assessori abbiamo trovato cinque anni di macerie che stiamo documentando. Non avevamo messo nel conto un anno e mezzo di blocco per la pandemia, che ha occupato il 70% del nostro tempo. Abbiamo seminato tantissimo e continueremo a farlo nel prossimo anno e mezzo, ma abbiamo il diritto anche di raccogliere. Lo dice la legge del contadino: chi semina, raccoglie. Non siamo talmente generosi da avere sputato sangue per anni e consentire al primo arrivato di raccogliere i frutti”. Più chiaro di così. Musumeci è già in campo, ma con queste premesse – e con così pochi amici – rischia di diventare il re del vuoto.