“Montante è un pezzo della storia, quello precipitato più rumorosamente”, ma “l’idea di potere ricondurre la cultura dell’antimafia a una condizione di privilegio e potere personale, appannaggio di pochissimi eletti, è un’idea che è dura a morire. E non si esaurisce con Montante e col suo destino personale”. Queste parole appartengono a Claudio Fava, presidente della commissione regionale Antimafia, che il 6 giugno 2019, alla vigilia dell’appuntamento teatrale che lui stesso allestì ai Cantieri della Zisa di Palermo – perché Montante è anche questo: drammaturgia –, metteva tutti in guardia dal ritenere concluse le vicende legate all’ex leader di Confindustria, nonché ex paladino dell’Antimafia ed ex membro del Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Montante era stato condannato – da poco – a 14 anni in primo grado con l’accusa di corruzione e dossieraggio. Divenendo, così, il ricettacolo di tutte le brutture politiche; il riferimento di ogni comitato d’affari, purché illecito; il metro di paragone per ogni infima bassezza umana; persino un modo, il più comune, per screditare l’avversario di turno.
Poche settimane fa, quando Musumeci finì sul banco degli imputati per la bufera sulla sanità siciliana, che costrinse l’assessore Razza a un rapido passo indietro, il governatore si presentò in aula e utilizzò Montante per rispondere ai duri attacchi del Partito Democratico: “Ma come si può pensare che su un episodio del genere (i dati falsi sul Covid e l’inchiesta della procura di Trapani, ndr) c’è il rischio che si perda la credibilità dell’istituzione proprio nei giorni in cui, sulle cronache dei giornali, torna alla ribalta il sistema Lumia-Montante che ha visto, per cinque anni, il governo passato ostaggio di un gruppo di potere e di un cerchio magico che ha fatto cose incredibili?”. Eccolo, Montante. L’uomo che non tramonta mai, l’esempio di cui ci si fa scudo per proteggere la propria moralità, per effettuare i dovuti distinguo; per enfatizzare il gap fra onesti e disonesti. Ripescando dagli archivi un’audizione dello stesso Musumeci in commissione Antimafia (datata ma non troppo: era il 29 novembre 2018) fa sorridere la sufficienza di alcune dichiarazioni, rilette – oggi – sotto una nuova lente: “Non so se all’interno del mio governo, quindi della mia giunta, ci sia qualcuno contaminato da quel sistema di potere – dichiarava candidamente il presidente della Regione –. Se conosco bene il curriculum dei miei assessori, posso escludere qualunque tipo di contatto. Se dovesse esserci, peggio per lui, perché resterebbe disoccupato nella sua attività”.
Ma i contatti più assidui col leader di Confindustria, stando al verbale dell’ultimo interrogatorio di Montante a Caltanissetta, erano proprio i suoi. Quelli di “Nellì e Antonello”. Che pranzano insieme e giocano a bocce, fino all’epilogo del carcere. La frequentazione – se ciò che dice Montante è vero – si chiude alla vigilia dell’arresto. Quando all’imprenditore di Serradifalco scivola fra le mani quell’immenso potere di cui la politica stessa lo aveva accreditato. Dal verbale dell’11 giugno 2021 – era un’udienza del processo d’appello – emerge che “fino al 2018 il presidente Musumeci (…) veniva a Confindustria, e aspettava anche ore, perché gli impegni erano tanti, per chiedermi esattamente che cosa doveva fare, quali erano le attività di sviluppo che doveva portare avanti. Voleva giocare a bocce, ci incontravamo a bocce, facevamo i pranzi in Confindustria, facevamo i pranzi a Palermo, ci vedevamo dappertutto, parlo di cose istituzionali, non parlo naturalmente di cose private”. Si pensava che ‘tolto Montante, sparito il problema’. Invece no. Tutt’altro. Oggi Montante, e i suoi modi, si rivelano un fastidioso prurito anche per il presidente della Regione, il fascista per bene, che aveva costruito la propria propaganda sul presentarsi come “alternativo”, in tutto e per tutto, a chi l’aveva preceduto.
E badate un attimo: se davvero i pranzi e le giocate a bocce risalgono al 2018, questi appuntamenti avevano ben poco di ufficiale, dal momento che lo stesso Montante si era sfilato un anno prima dalla presidenza di Confindustria, lanciando, dal 14 marzo 2017, il suo delfino Giuseppe Catanzaro. A che titolo era lì per parlare con Musumeci? Non era mica il suo “spin doctor”, per citare Fava. L’inchiesta della politica, così come emerge dal verbale dell’interrogatorio, è monca. E’ “truccata” direbbe qualcuno, dal momento che alcune verità (presunte) vengono omesse. Questo aspetto ha turbato il presidente della commissione Antimafia: “Audito in commissione Antimafia il 29 novembre 2018”, Musumeci “ha più volte ripetuto che gli unici suoi incontri con Montante erano quei tre riportati nell’agenda dell’imprenditore, e dunque risalivano tutti al 2015 (…) Se Montante dice il vero – conclude Fava – Musumeci non può restare un minuto di più alla guida della Regione: al di là dell’inopportunità di scegliersi, nei suoi primi mesi di governo, un indagato per mafia come consigliere economico, resterebbe il fatto gravissimo di aver ripetutamente e consapevolmente mentito ad una commissione del parlamento siciliano”. Il governatore, per il momento, rispedisce le critiche al mittente, senza entrare troppo nel dettaglio: “Quello che dovevo dichiarare sui rarissimi incontri avuti con il dottor Montante, quando rivestiva importanti incarichi istituzionali, l’ho già fatto all’autorità giudiziaria e non scendo in polemica con alcuno, né consento di mettere in dubbio la mia moralità, che i siciliani conoscono bene”.
C’è un “se” enorme in questa vicenda. Il dubbio, però, non è abbastanza per mettere il presidente della Regione – l’attuale, mica Crocetta – al riparo da un giochino di condizionamenti, di contatti, di pareri. E non è abbastanza nemmeno per asserire che il nuovo governo, dopo quello indissolubilmente legato ai Montante e ai Lumia di turno, sia talmente saldo e moralmente eccelso da saper respingere l’assillo di “mercenari, lobbisti, affaristi, accattoni, gente che cerca un nuovo padrino”, come li chiamava lo stesso Musumeci durante quell’audizione all’Ars. Per quanto emerso negli ultimi giorni dai corridoi del palazzo di Giustizia di Caltanissetta, la verità è incompleta. L’inchiesta (politica) monca, nonostante le 130 pagine di relazione dell’Antimafia. Azzannata dalle dicerie, dai sospetti, dalle recite a soggetto. Perché no, da qualche audacissimo depistatore.
Che nessuno della nuova giunta abbia avuto qualunque tipo di contatto, è smentito – inoltre – dalle nuove dichiarazioni di Montante. Il quale rivendica apertamente l’amicizia con Gaetano Armao, il vicepresidente della Regione: “Una persona che stimo, di grandissimo livello, fino al 2018, prima dell’arresto, veniva a cercarmi decine di volte – afferma Montante sotto giuramento – e a dirmi esattamente quali erano le attività che dovevano portare avanti”. Prima di leggere il verbale dell’interrogatorio, l’assessore all’Economia non aveva minacciato alcuna querela nei confronti di Montante. E non si era mai espresso in maniera così dura verso l’ex capo di Confindustria, divenuto interlocutore di prestigio nel corso del governo Lombardo, quando Armao si misurò per la prima volta da assessore: “Percepivo un clima di ostilità, un clima teso, ma non ho mai ricevuto minacce o richieste da Antonello Montante. L’ho incontrato due-tre volte”, ha riferito ai giudici di Caltanissetta.
Mentre di fronte alla commissione regionale Antimafia, ha puntato il dito contro un altro protagonista del ‘sistema’. Utilizzando la stessa teoria di Musumeci: “Oggettivamente si sentiva la presenza forte, pesante di questa connection tra Lumia e Confindustria nella gestione del governo Lombardo… c’era su ogni cosa, che le posso dire… Io prendevo un esterno – si rammarica Armao – e Lumia diceva ‘perché hai preso quell’esterno, quello non può stare lì, deve andarci un altro’, una continua ingerenza, sull’attività amministrativa che lascia veramente attoniti”. Lo scarso apprezzamento reciproco è confermato anche dall’ex senatore del Pd. Mentre Armao ha sempre sostenuto la propria estraneità a Montante, additando gli altri come “amici” (è accaduto, di recente e platealmente, anche con qualche giornalista ‘scomodo’). Il moralizzatore, ora, è finito moralizzato.
Il luogo prediletto per questa rappresentazione, al limite della messinscena, potrebbe essere proprio il teatro. Ma è un’opera, quella di Claudio Fava, che andrebbe aggiornata fino alle conquiste più recenti. Andando oltre le parole che ribollono d’odio ed etichettano il nemico; al di là degli atti processuali fin qui accertati (le pen drive distrutte, le intercettazioni memorabili); abbozzando una nuotata in mare aperto, col rischio incombente del naufragio. Presentando una versione completa di quanto accaduto al “cerchio magico”, prima e dopo Crocetta. Perché Montante, fin qui, è stato lo schianto rumoroso, ridotto in polvere fino alla banalità. Un esempio di malcostume finché si vuole. E gli altri? Tutti salvi?
La politica, pure stavolta, rischia di fare tardi, arrivando a cose fatte. Dopo la magistratura. Ma non è questo punto: qui c’è il rischio che nessuno riesca a tagliare lo striscione del traguardo. Che nessuno possa esultare per la propria moralità, e godere delle sventure altrui. La maravigghia è un falso alleato. Resta un mondo prossimo, tangente a Montante, fatto di commistioni, rapporti, affetti (talvolta), che hanno pesanti ricadute sulla credibilità e sulla moralità di protagonisti e comprimari. Su una storia che è stata sempre rappresentata secondo l’angolazione più conveniente, ancorché incompleta. Il brivido del ‘nemico da abbattere’, però, rivela una fase nuova. In cui nessuno può ergersi a paladino di qualcosa: all’ultimo che ci ha provato, non è andata benissimo.