Le condanne del processo di Palermo sulla Trattativa hanno radici antiche. La figura di Bernardo Provenzano colmò un vuoto che sarebbe risultato decisivo. La formula magica fu “connessione teleologica”. Senza la connessione fra l’omicidio di Salvo Lima e la Trattativa, infatti, il processo sul presunto patto (tale è fino a sentenza definitiva) tra la mafia e lo Stato si sarebbe dovuto celebrare in Tribunale e non in Corte d’assise. Niente giudici popolari, dunque.
Con i “se” con i “ma” non si fa la storia, ma probabilmente i processi sì. Solo una telecamera nascosta dentro la camera di consiglio nell’aula bunker del carcere Pagliarelli avrebbe potuto svelare le dinamiche che hanno portato al verdetto di condanna per i mafiosi e gli ufficiali dei carabinieri. La camera di consiglio, però, è giustamente sacra e inviolabile. E allora l’immagine dei giudici popolari che componevano la Corte resta sfocata, adombrata dal nero delle toghe del presidente Alfredo Montalto e del giudice a latere Stefania Brambille. A meno che, ma ipotizzarlo è un azzardo, non si scoprisse che il voto dei sei giudici popolari ha messo in minoranza i togati spingendo il verdetto verso la condanna. In questo caso, tra le prerogative del presidente Montalto ci sarebbe la possibilità di affidare a uno dei cittadini con la fascia tricolore di scrivere le motivazioni della sentenza.
Sentenza che viene emessa in nome del popolo italiano e che proprio per questo potrebbe avere risentito della permeabilità dei giudici non togati agli umori della piazza, al convincimento, popolare appunto, che Trattativa ci fu. Per dirla come Giovanni Fiandaca, certe questioni dovrebbero essere “di competenza di un giudice solo professionale”. Si sa, però, che il giurista Fiandaca, docente universitario di Diritto penale, nell’immaginario collettivo dei colpevolisti è e resta l’eretico che ha osato criticare in punta di diritto l’intero impianto accusatorio. Un eretico e negazionista che, nella logica di un mondo che malvolentieri si presta al confronto, avrebbe fatto bene a stare in silenzio. Figuriamoci alla luce delle condanne. Come se la batosta di primo grado avesse come pena accessoria la negazione del diritto di critica. Per fortuna Fiandaca, a dispetto dei cori di dissenso da tifoseria, non ha smesso di esercitare il suo diritto.
La “connessione teleologica” si configura quando dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultarne altri. L’idea venne ad Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto che guidò il processo facendone il suo faro mediatico fino a quando non decise che era pronto per il salto in politica. È stato un fallimento. Poi, è toccato al più giovane dei pubblici ministeri del pool, Roberto Tartaglia – la cui preparazione è riconosciuta da più parti – puntellarla con la giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione. Il primo ad accogliere la ricostruzione della Procura fu il giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini che mandò a giudizio gli imputati davanti alla Corte d’assise. Di per sé la minaccia a corpo politico dello Stato, questo è il reato della Trattativa, con una pena massima prevista di sette anni, sarebbe dovuto finire in Tribunale. La Procura, però, si giocò la carta della connessione. Il delitto dell’eurodeputato sarebbe stato il primo tassello dell’aggressione allo Stato, la prima reazione con la forza della minaccia al mancato aggiustamento del maxiprocesso in Cassazione. Dalle parti dello Stato dovevano capire che era meglio trattare con i mafiosi per evitare futuri guai. Non sarebbero stati semplicemente guai, ma giorni di morte e orrore con le bombe che dilaniarono i corpi di magistrati e agenti di scorta. L’omicidio Lima fu contestato al solo Bernardo Provenzano con l’aggravante di averlo commesso per eseguire la minaccia che portò alla Trattativa.
Era il 2012 quando Ingroia pescò nel sempreverde fascicolo sui cosiddetti “sistemi criminali”, a cui aveva lavorato come pm del gruppo guidato da Roberto Scarpianto. Un pozzo senza fondo su un presunto golpe che avrebbe visto protagonisti, negli anni ’90, in un tentativo di destabilizzazione del Paese, Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera. L’indagine fu archiviata e riaperta nel 2008, grazie alle rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito. Lo stesso Ciancimino jr che al processo è stato condannato per avere calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Nel febbraio 2012 la trovata che anni dopo si sarebbe rivelata vincente. La richiesta di archiviazione dei “sistemi criminali” si concludeva con questo passaggio: “L’ipotesi da verificare è, quindi, se l’omicidio Lima sia stato il primo ‘atto violento’ di realizzazione del programma criminoso dell’associazione eversiva costituita nel 1990, l’inizio della guerra del sistema criminale contro il sistema politico istituzionale vigente. Ed occorre stabilire quali fossero le connessioni fra l’omicidio Lima ed i successivi fatti criminosi palermitani: le stragi immediatamente successive di Capaci e di Via D’Amelio, e l’omicidio di Ignazio Salvo del settembre di quel 1992”.
Come in una sfera di cristallo si intravedeva la nuova stagione giudiziaria. Dai “sistemi criminali” nascevano due filoni di indagini: quello sulla trattativa fra mafia e Stato e quello sui mandanti del delitto Lima. Come legarli per evitare che le indagini finissero lontano da Palermo? Mettendo sotto inchiesta Provenzano, che fino ad allora non era mai stato né indagato né imputato per il delitto. Erano gli anni in cui imperava il teorema Buscetta. Tutta la commissione provinciale di Cosa nostra fu giudicata colpevole dell’omicidio. In quella commissione il capo era Totò Riina, nonostante il ruolo riconosciuto a Provenzano e sottolineato da chi indagava. Gli inquirenti all’inizio pensavano, però, che Binu non avesse condiviso la linea dell’attacco frontale allo Stato, decisa da Riina in solitario. Poi, le cose cambiarono. Le vecchie dichiarazioni dei pentiti Nino Giuffrè e Salvatore Cancemi venivano lette sotto una nuova luce.
Morosini sposò la tesi della Procura, secondo cui era evidente la valenza intimidatoria dell’omicidio Lima, assassinato non per il suo ruolo di eurodeputato al momento che lo crivellarono di colpi, ma “in virtù del suo risalente e consolidato rapporto con la corrente andreottiana della Dc”. Quando ammazzarono Lima, il 12 marzo 1992, anche e soprattutto a livello istituzionale, si sarebbero resi conto delle conseguenze del delitto. Il presupposto che “tutti sapessero e immaginassero” l’arrivo dell’apocalisse convinse il Gup: tutti a giudizio davanti alla Corte d’assise. Corte che – fu una delle prime cose da affrontare – respinse le eccezioni che prevedevano il trasferimento del processo. I difensori sostenevano che se una trattativa fra lo Stato e la mafia era avvenuta il luogo della consumazione del reato era Roma e non Palermo visto che il governo minacciato aveva sede nella Capitale. C’era, però, l’omicidio Lima ad ancorare il processo in terra di Sicilia nonostante la posizione di Provenzano fosse stata stralciata per le pessime condizioni di salute del capomafia corleonese che lo avrebbero portato alla morte. Una morte avvenuta sotto il regime di quel carcere duro, il 41 bis, con cui i mafiosi avrebbero aperto l’elenco delle richieste durante la Trattativa.
La competenza per connessione restava intatta anche se Provenzano non era fra gli imputati in Corte d’assise. Non importava che il processo fosse stato separato, ma che fosse ancora pendente. Fu la prima vittoria della Procura della Repubblica e, con il senno di poi, il peggiore dei presagi per gli imputati. Non passò neppure la tesi che il processo dovesse andare a Roma, al tribunale dei Ministri, per la presenza di Nicola Mancino, l’unico assolto del processo, a cui veniva contestato il reato di falsa testimonianza e che per anni ha portato il fardello di essere considerato, nell’immaginario collettivo, il politico trattativista.
L’unico politico, ormai ex, condannato è stato Marcello Dell’Utri, assieme ai mafiosi e ai carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno. È legittimo attendersi, e stavolta non è un azzardo, che le responsabilità politiche saranno tracciate nelle motivazioni della sentenza. Saranno tirati in ballo ministri e capi di Stato ormai deceduti, e Silvio Berlusconi che divenne premier dopo le stragi. Sarebbe lui, infatti, nella ricostruzione della Procura che ha convinto la Corte d’assise, ad avere subito la minaccia mafiosa mediata da Dell’Utri nell’epilogo della Trattativa.
La falsa testimonianza di Mancino (che falsa non fu) era datata febbraio 2012 e dunque “ben oltre la cessazione di ogni carica ministeriale ricoperta”.
La Procura ebbe ragione su tutta la linea, tanto da stimolare le soddisfatte dichiarazioni dei pubblici ministeri Vittorio Teresi e Antonino Di Matteo. “Si è confermato – dicevano – che l’omicidio Lima è un dato fondante del nostro castello accusatorio e il primo atto dei ricatto che mafia e pezzi delle istituzioni fecero allo Stato”.
Esultavano i pm, il segnale era positivo. Il processo restava a Palermo. La tesi della connessione teleologica fece breccia. Non quella del nesso eziologico necessario per accogliere la richiesta di costituzione di diverse parti civili. In tanti restarono fuori dal processo, fra cui proprio i parenti di Salvo Lima. È vero, secondo l’accusa, che l’assassinio dell’eurodeputato fu il primo attacco frontale dei mafiosi, ma in Corte di assise si processavano gli imputati per la Trattativa e non per l’omicidio.