Pubblicazione di notizie coperte da segreto istruttorio; diffusione di intercettazioni penalmente irrilevanti; colpevolizzazione preventiva; annientamento della privacy di indagati e imputati: il circo mediatico-giudiziario è entrato a far parte della vita del nostro Paese. Un meccanismo infernale, che ogni giorno spazza via carriere professionali, stabilità economiche, reputazioni, rapporti familiari, sociali e affettivi. Talvolta, vite intere. Nel suo libro “I dannati della gogna” (la prefazione è affidata a Gian Domenico Caiazza), Ermes Antonucci ripropone al lettore venti storie esemplificative di vittime della gogna mediatico-giudiziaria. Il primo estratto che vi proponiamo è dedicato all’ex ministro della Democrazia Cristiana, l’on. Calogero Mannino.
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«Si sono portati via la mia vita»
«Si sono portati via la mia vita. Quella di “processato in aeternum” è un’esperienza drammatica e inenarrabile. Non ci sono neanche mezzi espressivi sufficienti per rappresentare la realtà drammatica di questa condizione». L’odissea giudiziaria di Calogero Mannino, esponente di spicco della Democrazia Cristiana e cinque volte ministro nella Prima Repubblica, dura ormai da più di un quarto di secolo, da trent’anni per la precisione, cioè da quando nel 1991 venne mossa per la prima volta nei suoi confronti l’infamante accusa di essere vicino alla mafia. È stato indagato, sbattuto in carcere, processato, ma alla fine è sempre stato assolto da ogni accusa. Nel frattempo, però, la sua vita è stata stravolta.
L’ultima assoluzione è giunta l’11 dicembre 2020, quando Mannino è stato assolto definitivamente nel processo stralcio sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”.
Nel 2010, invece, è finita con una sentenza definitiva della Cassazione l’altro calvario giudiziario di cui Mannino è stato vittima per ben 19 anni, con al centro l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Un’accusa infamante per chi, durante le elezioni del 1991, da responsabile politico della Dc in Sicilia, contrastò apertamente la mafia, tanto da tappezzare la regione con dei manifesti con su scritto «Contro la mafia, costi quel che costi».
Eppure, nel 1995 la procura di Palermo, guidata da Giancarlo Caselli (supportato dai sostituti Vittorio Teresi e Teresa Principato) chiese e ottenne per Mannino persino l’arresto. L’ex deputato Dc trascorse nove mesi in carcere e altri tredici mesi agli arresti domiciliari. La detenzione sconvolse la salute fisica e psichica di Mannino, che arrivò a perdere addirittura venti chili.
Quindici anni di sofferenze dopo, nel 2010 Mannino venne assolto in via definitiva da tutte le accuse, al termine di un processo a dir poco tortuoso: assoluzione in primo grado, condanna in appello, annullamento della condanna in Cassazione, assoluzione nel nuovo appello, assoluzione definitiva in Cassazione.
Nel 2008 il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonio Siniscalchi, nel chiedere l’assoluzione nei confronti di Mannino, definì la precedente sentenza di condanna «un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta».
Poi è stata la volta del processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Secondo i pm palermitani (Antonio Ingroia, che poi abbandonò l’incarico in procura, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) fu Mannino, durante la stagione stragista del 1992, a spingere i vertici del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri a farsi intermediari di un patto tra lo Stato e Cosa Nostra. Peccato che il castello accusatorio sia stato interamente bocciato dai giudici in primo grado, in appello e infine in Cassazione.
Nella sentenza di assoluzione di primo grado del 2015, il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella, ha demolito le ipotesi accusatorie parlando addirittura di «prove inadeguate», «suggestiva circolarità probatoria» e «interpretazioni di colpevolezza indimostrate». In appello la Corte ha definito la tesi della procura di Palermo «non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare». I giudici hanno anche stabilito che Mannino non era finito «nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute», ma, al contrario, era «una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991».
È difficile, però, parlare di vittoria dopo che si è stati vittima del tritacarne mediatico-giudiziario per oltre un quarto di secolo, a causa di processi che non avrebbero dovuto neppure cominciare.
«Il mio stato d’animo è sempre stato serenamente ispirato al positivo – confida Mannino – In modo particolare, avevo la coscienza tranquilla per non avere minimamente tenuto alcun comportamento riconducibile alle fantasiose accuse dei pubblici ministeri, per la consapevolezza dell’abbaglio in cui si stavano cacciando e per la convinzione che si trattasse di un nuovo capitolo di un intrigo». «Io non ho “recriminazioni” da fare, non ho risentimento alcuno. Constato soltanto che ci sono stati alcuni operatori di ingiustizia, come li definisce il Vangelo di Luca, che hanno ritenuto di impostare molte volte le indagini nella direzione erronea, e quindi depistante. Da ultimo con questo processo. Per me più che una trattativa, nella quale se v’è stata sono radicalmente escluso, c’è stato un intrigo, che dovranno chiarire in molti, rispondendo di alcuni comportamenti e di alcune scelte che hanno portato ad assurdi procedimenti giudiziari che mi tengono inchiodato da 29 anni».
«Si sono portati via la mia vita – ribadisce l’ex ministro –. Gli operatori di giustizia come possono far questo? Ovviamente mi riferisco ai magistrati inquirenti, non a molti dei giudicanti, dei quali ho un’opinione diversa e quindi stima, e non soltanto perché mi hanno assolto, sostenendo un compito improbo e difficile, ma perché hanno saputo resistere all’elevatissima intensità della pressione esercitata da parte dell’accusa, con l’apporto correlato del circuito mediatico-giudiziario, e hanno mostrato di avere come unico obbiettivo la ricerca della verità, salvando la funzione della giurisdizione dai rischi della degenerazione a strumento politico. Il vero problema, infatti, è l’“ingiusta giustizia” per il profilo del ruolo assunto da alcune procure».
In effetti, anche nel caso di Mannino, gli organi di informazione sembrano aver agito come megafoni delle accuse dei pm e come strumenti di gogna. «Basti considerare – replica Mannino – che il “Corriere della Sera”, “La Repubblica” e “Il Fatto Quotidiano”, solo per nominare tre giornali, non hanno riportato la notizia della mia assoluzione, salvo un breve cenno disperso tra le cronache. Eppure, all’epoca avevano riportato con pagine intere la notizia della mia incriminazione. Anzi, alcuni giornalisti avevano persino svolto il ruolo di coautori dei testi dell’accusa. Pensi a Travaglio, che ha recitato una piece teatrale con i pubblici ministeri seduti teatro in prima fila. Sembrava la traccia della loro requisitoria».
Anche questa gogna, come le altre, finisce così per passare in cavalleria. Eppure, Mannino ha anche subito l’onta di trascorrere, in via preventiva, nove mesi in carcere e altri tredici mesi agli arresti domiciliari. «Di quella esperienza oggi preferirei non parlare, perché non amo né il quietismo né il pietismo», mi dice. «Quando vorrò dire qualcosa sull’esperienza carceraria lo farò in maniera oggettiva, non per contestarla, ma per metterla in discussione di fronte alla opinione pubblica, cioè alla consapevolezza civile della Comunità. Però le vorrei far presente solo una cosa: mentre ero in carcere mi è stato diagnosticato un cancro, e sono stato ricoverato, uscendo dal carcere, all’Ospedale San Camillo soltanto dopo la visita in cella del Presidente Francesco Cossiga. Basta questo, chiudiamola qui».
L’assurdità del calvario giudiziario e delle accuse di mafia in questo caso appare ancora più evidente se si pensa al trascorso politico di Mannino, caratterizzato proprio da un’attività di contrasto alla mafia. «Nel 1991, da responsabile politico in Sicilia della Dc, così come nel 1985 al momento dell’avvio, ho tenuto una linea di condotta apertamente di contrasto alla mafia – ricorda l’ex ministro –. Eravamo nella fase conclusiva del maxi processo e bisognava sostenere apertamente e con segni evidenti l’azione del pool antimafia. Era l’evidenziazione di una scelta di campo, non un giuoco».
E non è tutto: «Si vadano a prendere gli atti parlamentari. Nel febbraio del 1980 alla Camera, il sottoscritto, come vicepresidente del gruppo parlamentare della Dc, presentò una mozione con cui si concludevano i lavori di ben due commissioni antimafia, che per due legislature non avevano concluso i lavori. Si vadano a riguardare quali erano le proposte di quel documento presentato e approvato dall’aula. Ne cito due: l’introduzione del 416 bis, che poi è stato applicato contro di me, e l’introduzione di livelli di coordinamento e di direzione dell’azione giudiziaria, che è la linea che poi svilupperà Falcone con i provvedimenti approvati dal governo Andreotti, del quale sempre il sottoscritto faceva parte. Non li ha approvati il circoletto dell’antimafia di mestiere. La lotta alla mafia, nei passaggi essenziali, ha visto un mio impegno e un mio apporto, che hanno provocato l’avversione da parte della mafia».
«Mi sono dovuto anche caricare l’onere politico del Congresso di Agrigento del 1983, quando Ciancimino fu escluso dagli organi di partito – aggiunge Mannino – e ne ebbi un premio: con il governo successivo alle elezioni del 1983 non fui riconfermato ministro. Si disse allora, da parte di autorevoli esponenti della Dc, che la Sicilia non poteva sostenere il mio “peso”. Non ho mai ricevuto spiegazioni da chi di dovere. Però nel 1985, quando il pool antimafia diretto dal dottore Falcone portò a conclusione le indagini giudiziarie con l’ordinanza-sentenza che avviò il maxiprocesso, mi si chiese di gestire come commissario la Dc siciliana, con il risultato indiscutibile dei successi elettorali del 1985, 1986, 1987 e 1991, quando mi dimisi da commissario (e al mio posto da Forlani, segretario nazionale, fu nominato Sergio Mattarella). E soprattutto con una linea politica che fu di aperto sostegno al maxiprocesso e all’azione di Falcone».
È inevitabile pensare a quanti altri casi Mannino potrebbero accadere con la riforma che, dal 1 gennaio 2020, ha abolito il decorso della prescrizione dopo le sentenze di primo grado, siano esse di condanna o di assoluzione. «Aver modificato ulteriormente la prescrizione è un errore che deriva dalla dominanza di un pensiero giustizialista, che manca di considerare la realtà del processo nel suo complesso – spiega Mannino – Ad esempio la fase preliminare, chiamata istruttoria, non finisce mai. Quando il processo comincia il tribunale non si trova delle bocce ferme, ma si trova molte bocce che corrono e che sono nelle mani esclusive del pubblico ministero. Si tratta di un meccanismo perverso, che ha trasferito il processo dall’aula del tribunale all’ufficio del pm, il dominus assoluto del processo. Riformare la prescrizione senza considerare questi aspetti è un grandissimo errore. Il risultato sarà che i processi avranno una durata ancora più lunga, perché quando il pubblico ministero saprà di poter contare su termini di prescrizione più lunghi utilizzerà ancora più discrezionalmente il tempo che gli è riservato per la sua istruttoria».
«Anziché evocare la mia triste esperienza di uomo in attesa di giudizio – conclude Mannino, che il 20 agosto 2019 ha compiuto ottant’anni – vorrei quindi richiamare su questi aspetti l’attenzione di tutti, anche del legislatore, che non avrebbe dovuto lasciare passare questa riforma solo perché un ministro della Giustizia, che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie, ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici».