Partiamo dall’esempio sbagliato, se non fosse altro che Pippo Baudo è siciliano e catanese come lui: sui social, in queste ore, circola una vecchia intervista del conduttore a Franco Battiato. Anno 1980. Il Maestro – quando Battiato non è ancora Battiato – si presenta in via Teulada, a Domenica In, con quell’aspetto mistico e, perché no, un po’ lugubre. Baudo, che ha comunque il merito di avergli concesso una vetrina in prime-time, ridacchia per il suo aspetto e per il suo naso. E, cercando di introdurre i temi di un linguaggio un po’ pop, un po’ sacro e un po’ etnico, prova a carpire agli spettatori a casa qualche sorriso ignaro: “Ma che vuol dire musica meta-analitica, a favore di una non spazialità atemporale? Dimmelo, te lo chiedo in ginocchio”. Risate generali. Il cantautore, con un percettibile imbarazzo, offre una spiegazione. Ma non basta: “E voi, avete capito? – fa Baudo rivolto al pubblico in studio – Ma no che non avete capito, fate solo finta”. Il siparietto, riletto quarant’anni dopo, appare un’inutile forzatura del grottesco di fronte al palesarsi dell’arte. Andrebbe contestualizzato ai tempi e agli intenti – da qui la premessa dell’esempio sbagliato – ma analizzato in superficie restituisce ciò che la Sicilia, in questi anni, ha riservato a Battiato. Indifferenza, lassismo, talvolta derisione, a giudicare da alcuni episodi.
Senza soffermarsi sulle celebrazioni del day after, solitamente precotte e poco originali, e al netto dai giudizi inerenti ai “generi musicali” (si, in forma volutamente plurale) di Battiato, un paio di considerazioni andrebbero spese sul trattamento che l’Isola – nelle sua varie forme: politica, istituzionale, accademica – ha riservato al cantautore di Riposto, i cui funerali sono stati celebrati ieri, in forma riservatissima, a Milo, nella sua residenza storica. Partiamo da un assunto dello stesso Baudo, quarant’anni dopo il siparietto: “In Battiato emergeva un’anima al tempo stesso siciliana e internazionale, europea e araba. Ma Franco è stato più grande, stava in una dimensione più alta di quella siciliana”. Qualcosa d’altro, o di più, rispetto alla Sicilia, pur conservando “tantissima sicilitudine” per come la intendeva Sciascia. Ecco: spesso non siamo riusciti a coglierla.
L’extraterrestre Battiato, in questa sua dimensione poco incline e poco affine a quella standard, è stato respinto. Verrebbe in mente l’esperienza nel governo regionale di Rosario Crocetta, nel 2012, ma ci arriveremo dopo. Prima vale la pena soffermarsi su un episodio che Mario Barresi racconta con dovizia di particolari su ‘La Sicilia’ di ieri. Riguarda il mancato conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Catania, nel 2005. La proposta del preside della Facoltà di Lettere, Nicolò Mineo, viene respinta dal Senato Accademico con il voto decisivo di un rappresentante degli studenti, tale Giacomo Bellavia, un ex rampollo di Alleanza Universitaria. Attenzione a questo passaggio: è la politica che intacca l’arte, in una drammatica commistione di competenze, leggasi ingerenze, che finisce per far deflagrare i migliori intenti. Scrive Barresi, infatti, che Bellavia “ebbe l’esplicito sostegno di tutti i vertici di An”. Con quale motivazione? “Ho votato no perché lui ha detto che se Scapagnini fosse diventato sindaco battendo Bianco (come poi avverrà, ndr), avrebbe lasciato la città”. Così ecco la ritorsione ‘anticipata’, vissuta alla stregua di un capriccio: meglio un’onorificenza in meno che un rimorso in più.
La decisione del Senato Accademico recise il rapporto fisico e materiale fra Catania e il suo Franco, che mise in vendita la sua casa di via Monte Sant’Agata, con vista su via Etnea: “Nulla può intaccare il mio rapporto con Catania e con i catanesi – si giustificò, comunque, il cantautore – però ho il diritto di esprimere la mia opinione e di non cambiarla. Avevo detto che avrei lasciato la città e lo farò”. Un’ingerenza costata carissima, a cui l’Università non seppe (e non poté) rimediare neanche dopo.
Poi, nel 2012, arriva la politica. Rosario Crocetta lo tampina per farlo diventare assessore al Turismo. Ci riesce, a patto di dargli carta bianca. Di concedergli la libertà di “poter lasciare da un momento all’altro”. Di poter “contaminare” anziché amministrare. Su Facebook c’è una bella testimonianza del giornalista Maurizio Zoppi, che rivela quanto poco a suo agio si trovasse il Maestro coi palazzi del potere: “Una delle frasi più interessanti e sincere che ho sentito durante un’intervista politica la disse proprio Franco Battiato: ‘Dopo 30 anni che frequento l’aeroporto di Catania mi sono sentito dire buongiorno assessore. Questa storia sta diventando un incubo. Non voglio prendere ufficialmente le distanze dalla politica ma è così. Io non ho rapporti con la politica’”. Eppure Battiato accettò di fare l’assessore (alle “meccaniche celesti”, come lui stesso ebbe a definirsi), di farlo a costo zero. E di svolgere il compito – perdonate l’eccesso di semplificazione – nel tempo libero. Quando non era impegnato in tournée o nella stesura di nuovi capolavori. Non andò bene, anzi andò malissimo.
A un primo momento di naturale curiosità (“Ho bisogno di uno spazio dove non ci siano ostacoli e ci sia la possibilità di potere organizzare eventi speciali che mettano in contatto la Sicilia con il resto del mondo e questo si può fare, anche con pochi soldi”, disse Battiato), ne seguirà uno di profonda indolenza da parte dei partiti – anche della sua stessa maggioranza – che non sopportavano l’elevazione elitaria del cantautore: la possibilità – negata ad altri – di gestire il tempo nella maniera a lui più consona. La stessa libertà d’azione che si lascia a Messi o Ronaldo, per usare una citazione calcistica, senza che l’allenatore possa mettere becco. Ecco che i rapporti iniziano a logorarsi. Stritolare l’arte non è utile e Battiato, a un certo punto, non fa più nulla per integrarsi: un giorno, a Bruxelles, sferra un attacco frontale “alle troie” sedute in parlamento “che farebbero qualunque cosa. Dovrebbero aprire un casino e farlo pubblico: lì sarebbero perfette”. In seguito dirà di non avercela con le donne, ma con il sistema immarcescibile della politica corrotta e malata, che qualche tempo prima – dura in carica non più di quattro mesi – lo aveva fatto sbottare di fronte alle casse vuote del suo assessorato: “Qui si sono fottuti tutto”.
La giunta ‘grandi firme’ voluta da Crocetta, che assieme all’artista annoverava uno scienziato (Antonino Zichichi) col quale discutere di raggi cosmici e meccanica quantistica, provocò troppi risolini e si sgonfiò in fretta. “Franco è indifendibile”, disse il governatore prima di sollevarlo dall’incarico. Anche se oggi ritratta quella versione: “Io volevo trattenerlo in giunta – ha detto a Repubblica l’ex sindaco di Gela – me ne sarei fregato. Quelli che attaccavano (per la battuta sulle ‘troie’) ce l’avevano con me più che con lui. Non ne volle sapere. Mi disse ‘io me ne vado perché non puoi governare con il contrasto del Senato, della Camera e del Parlamento europeo’. L’addio alla giunta fu un atto d’amore. Me ne dispiacqui molto”. Ma Crocetta allontanò anche Zichichi, dichiarando fallito il suo tentativo dopo una manciata di settimane, tanti mugugni e i soliti stereotipi. Battiato fu anche rimproverato pubblicamente dal presidente dell’Ars, Antonino Ardizzone, per aver rinunciato alla cravatta – eresia – per entrare a palazzo dei Normanni per una seduta parlamentare.
Il filo spezzato con Battiato è lo stesso filo che fatica a ricucirsi fra l’Isola e i suoi prodotti migliori. E’ l’istantanea di una terra irredimibile che, col metodo della prevaricazione, non ammette eccezioni di fronte ai soliti rituali. Che fatica a riconoscere il merito e apprezzare l’arte. Che lotta per rimanere se stessa, immutata, gattopardesca; e si appella all’invidia come strumento di confronto. Una terra che un giorno, magari, troverà la forza di un nuovo slancio. Non basta appellarsi al genio, ma sollevare il capo e aprire un attimo la mente.