<…Mi impiccherò in mattinata tra le ore 5 e le ore 6. Comunque 5 minuti prima di impiccarmi ti scriverò l’ora esatta del mio ultimo gesto da vivo. Cucunè, ti sembrerà strano, ed è strano anche per me, scriverti con tanta tranquillità che dovrò impiccarmi. Ma devi credermi, non ho nessuna paura a scrivertelo. Non avrei mai creduto, amore mio, che ci fosse stato qualcosa, come in questo caso il virus che mi tormenta da due mesi, a farti da parte e metterti in seconda fila. Per me fino a due mesi fa tu eri l’essere umano che ho amato di più, ora al primo posto c’è lui. Mi dice che dobbiamo farla finita, mentre fino a due mesi fa io vivevo per te e non c’era nulla che contasse più di te, ora amore mio per me conta solo non restare in carcere. […] Grazie di tutto amore mio.>
Leggo e rileggo questo passaggio di una drammatica lettera che il detenuto ergastolano Salvatore Grassonelli scrisse alla moglie dopo aver lucidamente scelto di togliersi la vita. Prima di impiccarsi, lungo tutta la sua ultima notte di pena nella cella fradicia e umida dov’era rinchiuso da solo, ebbe la forza e la determinazione di scrivere anche una lettera per ciascuno dei suoi quattro figli. Sono pagine dolorose di un uomo che scientemente si stacca dalla famiglia, dalle sue gioie più care e dalla vita che non aveva più, seppellita dal <fine pena mai>. La famiglia mi ha autorizzato a pubblicarle nel libro <Malerba> (Mondadori-2014), che ho scritto a quattro mani con Giuseppe Grassonelli, uno dei quattro figli di Salvatore, pure lui condannato all’ergastolo. Un memoir di cui vado fiero e orgoglioso, non tanto e non solo perché ha vinto il premio <Sciascia> ed è stato pubblicato in una decina di paesi, ma quanto e soprattutto perché ha fatto scricchiolare pregiudizi e granitiche convinzioni tra coloro che erano fermamente convinti che chi sbaglia non solo deve pagare, ma a seconda del reato, come spesso si sente dire <si prende la chiave e si butta a mare>. Ecco, “Malerba”, la vera storia di Giuseppe Grassonelli, della guerra di mafia che scatenò tra la fine degli anni ’80 e gli inizi del ’90 contro cosa-nostra per vendicare lo sterminio della propria famiglia, ha compiuto il miracolo di far <ragionare> dentro e attorno alla condanna all’ergastolo, scevri appunto da pregiudizi stereotipati e da facili demagogie.
“Malerba” ha fatto scoprire a molti, moltissimi, per esempio, che l’Italia è l’unico paese in Europa a prevedere il carcere a vita. No. Non è un modo di dire: solo da noi esistono due tipi di ergastolo. Quello diciamo così <comune>, che dopo una decina di anni scontati permette al detenuto di cominciare a chiedere i permessi; e quello <ostativo>, il cosiddetto 4 bis (da non confondere con il 41 bis, il carcere duro), che invece ti farà marcire in galera, se non si decide di collaborare. A me per primo, che pure sono avvezzo a questioni carcerarie, apparve come un obbrobrio scoprire, mentre scrivevo “Malerba” che nelle nostre carceri sono sepolte da questa forma di ergastolo oltre 1.200 persone, tra mafiosi e terroristi. E sapete una cosa? Nella loro scheda personale, all’ufficio matricola, accanto ai loro nomi ci sono scritte, ovviamente, la data di inizio e la data di fine pena. Ebbene, mentre la data di inizio coincide con quella dell’arresto, in quella di fine pena non c’è scritto <mai>, come si supporrebbe. Ma c’è scritto <31 dicembre 9999>. Tradotto: uno che si becca l’ergastolo ostativo uscirà dalla galera solo dentro a una bara. E allora, provate a chiedervi, senza retoriche sbarazzine, come possa un uomo, per quanto abbia sbagliato, provare a recuperarsi, a rieducarsi – come prevede peraltro l’articolo 27 della Costituzione- se sa che non potrà mai, mai più uscire dal carcere.
Mi ha sempre affascinato, da quando frequento carceri e detenuti, provare introspettivamente a comprendere come facciano questi <uomini a perdere>, a resistere e a non cedere alla tentazione di <farla finita>. Me lo sono fatto spiegare bene da Giuseppe Grassonelli, e lo abbiamo ampiamente riportato nel libro, e ho capito che solo con la cultura – leggendo, studiando, laureandosi (come nel suo caso)- si riesce a sopravvivere nella fiducia, non nella speranza, ma nella fiducia che le cose possano cambiare, legislativamente, e ai più meritevoli, a coloro che si sono lasciati alle spalle gli orrori e gli errori di una vita scellerata, venga concessa una possibilità. Ma se uomini, ergastolani, come Giuseppe Grassonelli, Carmelo Musumeci, Alfredo Sole, Gaetano Puzzangaro, Giovanni Prinari, per citarne alcuni di quelli che ho incontrato e conosco, hanno avviato un importante percorso di resipiscenza e oggi possono considerarsi uomini nuovi, collaboratori sociali, e possono confidare nella clemenza dello Stato e cominciare a usufruire di permessi, per molti altri non scatta quest’esigenza, e finisce che si lasciano andare, si abbandonano all’oblio, vivono come piante, vivono senza esistenza. Si sentono inutili e svuotati. E in questa condizione psicologica, non è difficile immaginare la pericolosa deriva che possano prendere le loro coscienze. Si uccidono! E badate bene. Non serve essere condannati a vita per decidere di suicidarsi. Anzi.
Le statistiche ci dicono che ad ammazzarsi in cella sono sempre di più giovani detenuti che hanno condanne non eterne. Uomini fragili che cedono nell’attesa. Si arrendono. L’ultimo detenuto a impiccarsi, ieri, in una cella di Poggioreale, doveva scontare una condanna per droga che sarebbe finita nel 2024. Ma chissà cosa gli sarà passato per la testa a spingerlo a uccidersi e a non resistere altri sei anni. E’ il ventiquattresimo morto suicida dall’inizio dell’anno nelle nostre carceri. E pensate, ben 585 suicidi sono stati sventati in sei mesi solo grazie al tempestivo intervento di altri detenuti e soprattutto di agenti della penitenziaria. Che sono pochi e devono far fronte a mille emergenze, e qualche volta finisce che anche tra loro si verifichino suicidi. Ma nessuno ne parla. Se non fosse per i sindacati che denunciano le morti in cella e continuano ad invocare carceri migliori, più sicurezza e più personale, queste notizie non le leggereste da nessuna parte. Non ne parlano i tg, non ne scrivono i giornali. Perché sono morti silenziose, da lasciare scivolare nell’oblio, come le vite che hanno avuto questi disgraziati, sepolte, e silenziate. Da tempo si invoca una riforma dell’ordinamento penitenziario. Sembrava fosse tutto pronto nella precedente legislatura. Ma ora la commissioni giustizia di Camera e Senato l’hanno bocciato. E tira un’aria giustizialista nel paese che là <dentro> non fa stare tranquillo nessuno. Soprattutto chi si è riscattato, tenendo fede ai dettami costituzionali, e attende, come dire? un riconoscimento dallo Stato. Invece, c’è la pancia del paese che invoca <certezza della pena>, e una parte un po’ più nobile che si batte ancora per l’abolizione dell’ergastolo, per allinearci con gli altri paesi europei, e per avere carceri più dignitose. E poi magari succede che senti Beppe Grillo immaginare un paese senza carceri <che così come sono non servono>.
E niente, mentre fuori, stancamente, il tema di tanto in tanto rimbalza negli ambienti politici e molto meno in quelli sociali, <dentro> c’è chi vive ancora, nonostante tutto, di fiducia, e chi rinuncia. E si impicca.