Oggi, nella cattedrale di Agrigento, Rosario Livatino sarà proclamato beato. La Chiesa ha riconosciuto che il giovane magistrato, ucciso dalla mafia nel settembre del 1990, ha subito il martirio “in odio alla fede” e pertanto lo eleva, come usa dirsi, agli onori dell’altare, lo propone come straordinario testimone dei valori evangelici che fortificarono il suo senso del dovere e il suo ruolo di tutore della legge. Dopo Giuseppe Puglisi, la Chiesa siciliana indica un’altra vittima della criminalità organizzata come modello al quale ispirarsi, e insieme consolida una precisa scelta di campo, ribadendo l’assoluta incompatibilità tra l’insegnamento evangelico e la violenza, tra la partecipazione alla vita religiosa e l’appartenenza a quella che un tempo veniva chiamata “l’onorata società” o semplicemente l’indifferenza nei suoi confronti.
Da molti anni la realtà ecclesiale è nettamente schierata su questo versante e, con diverse accentuazioni, i vescovi, i sacerdoti e le organizzazioni cattoliche rappresentano un baluardo contro la mafia e utilizzano la “Parola” anche per sostenere e diffondere la legalità.
Per arrivare a questo traguardo, per uscire da un antico silenzio rotto solo da sporadiche eccezioni, per abbandonare forme di indifferenza e, in qualche caso, di connivenza con la mafia, la Chiesa isolana ha dovuto sottrarsi alla diffusa convinzione che con la mafia stessa si potesse convivere, che essa costituisse una delle componenti ineludibili e perfino accettabili della realtà isolana, una convinzione del resto prevalente nel mondo delle professioni, dell’accademia, della politica, in generale della società.
Per approdare a un’opposizione ormai da tempo chiara e definita, la Chiesa ha percorso una strada lunga e non facile. Vi sono stati, in passato, numerosi episodi di collusione con la criminalità, perfino di alcuni preti, la presenza della stessa in molte confraternite ed un protagonismo ostentato nella organizzazione delle feste religiose. Questo è potuto accadere anche perché ritenuto quasi normale dalla sensibilità comune e diffusamente accettato dalla realtà siciliana, all’interno della quale le denunce contro la mafia erano accompagnate da indifferenza e da ignavia, le sue vittime erano viste come eroi solitari. I vertici della comunità ecclesiale a lungo sono stati dentro questo mondo, in qualche misura hanno accettato la sua maniera di rapportarsi con la mafia. Ancora a metà degli anni ‘60 del secolo scorso, quando già nella realtà politica, anche in quella democristiana, si faceva sempre più insistente la denuncia contro la mafia, quando, dopo la strage di Ciaculli del 1963, dove vennero uccisi sette carabinieri e quando, dopo un voto unanime dell’Assemblea regionale, il Parlamento aveva costituito la commissione d’inchiesta sulla mafia, ancora allora il Cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, denunciava come frutto di una congiura organizzata per screditare la Sicilia la posizione di molti giornali e, insieme con loro, di quanti indicavano la pericolosità e la dimensione del fenomeno criminale.
Negli stessi anni, per fare qualche esempio, l’arciprete di Mussomeli firmava una petizione in favore di Giuseppe Genco Russo, capo della mafia della provincia di Caltanissetta inviato al confino di polizia, e un parroco della diocesi di Palermo sospendeva la festa religiosa del paese per solidarietà con un esponente della locale criminalità arrestato. In quel periodo, tuttavia, all’interno del mondo cattolico siciliano maturava e si diffondeva un’insofferenza per l’atteggiamento di alcuni esponenti di vertice e si affermava la consapevolezza della totale inconciliabilità dei valori cristiani con la violenza mafiosa.
Da Agrigento, dove Livatino sarà proclamato beato, alla fine degli anni ’60, il vescovo Giuseppe Petralia e il periodico diocesano “L’amico del popolo” assumevano per la prima volta – a distanza di molto tempo da quando Luigi Sturzo aveva denunciato la pericolosità della mafia – una posizione di decisa denuncia, mentre a Palermo, sullo stesso fronte, si schierava il periodico “Voce cattolica”.
Solo nel 1974 la Conferenza Episcopale siciliana denunciava la mafia come organizzazione criminale e come elemento di forte ostacolo alla crescita sociale e allo sviluppo economico dell’Isola. Da quel momento, sarà quella la posizione costantemente tenuta dalla Chiesa e in particolare dal cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, fino al “grido” di Giovanni Paolo II, sempre ad Agrigento, nel 1993. Nel suo italiano approssimativo e tuttavia di straordinaria efficacia, il Papa in quella circostanza disse: “Non uccidere … Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Vita, Via e Verità, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il Giudizio di Dio!”.
Poco meno di tre anni prima, a qualche chilometro di distanza dalla Valle dei Templi, da dove il Papa faceva sentire, alla Sicilia e al mondo, il suo anatema contro la mafia, era caduto, testimone di fede, dei valori cristiani e interprete rigoroso del suo ruolo di tutore della legge, il giudice Livatino, che entra ora nel novero dei santi della Chiesa.