L’assessore alla Funzione pubblica, Marco Zambuto, si è ritrovato nel mezzo di un groviglio. La burocrazia siciliana è malata: non solo perché funziona male, ma soprattutto perché non è in grado di darsi regole certe. L’esponente del governo Musumeci ne ha già parlato a Roma con gli uffici del Ministro Renato Brunetta, con il quale nelle prossime settimane bisognerà scendere a patti per rivedere l’accordo Stato-Regione firmato il 14 gennaio: l’obiettivo è tornare ad assumere. I termini della questione, così posti, paiono generici. E addirittura superficiali, dando uno sguardo alla dotazione organica del personale: alla Regione sono in servizio 12.219 dipendenti e poco meno di 900 dirigenti. Non è questo il punto. Bisognerebbe concentrarsi, piuttosto, sulle competenze a disposizione e su quelle richieste da una macchina amministrativa che andrebbe adeguata ai tempi, ma negli ultimi anni si è totalmente impallata: i deficit più evidenti riguardano la digitalizzazione, il cambio dei modelli di lavoro (la pandemia ha imposto di ripiegare sullo smart working), la capacità di spesa. E, soprattutto, l’età media: troppo alta.
Gli scontri con il presidente della Regione, che non ha lesinato critiche al personale (parlando di “grattapancismo”), ha ingolfato il percorso motivazionale di chi, pagato dai contribuenti, non riesce a restituire un servizio pari alle aspettative. Eppure nei report di fine anno, tutti o quasi raggiungono gli obiettivi prefissati, facendo scattare premi di rendimento di un certo valore (46 milioni all’ultimo giro) e l’innalzamento del tetto degli straordinari. La Sicilia è il classico caso dove nulla (o quasi) funziona, eppure sono tutti bravissimi. La valutazione delle performance, ad ogni modo, non può distrarre dalle mille questioni che attraversano i rivoli della burocrazia regionale: il caso più plateale, nelle ultime ore, è quello degli undici ex dipendenti, che erano andati in pensione con quota 100 e adesso sono stati richiamati in servizio. Per di più dovranno restituire l’assegno di quiescenza.
E’ un bug che nasce dall’impegnativa romana del Consiglio dei Ministri della legge regionale del 6 agosto 2019, che estendeva i benefici di Quota 100 (una misura adottata a Roma dal governo gialloverde) ai dipendenti regionali. La norma, dopo il ricorso di Palazzo Chigi, è stata bocciata dalla Corte Costituzionale per la mancanza di coperture finanziarie. L’effetto dirompente è l’annullamento in autotutela dei pensionamenti, anche per coloro che – sfruttando il ‘nullaosta’ della legge di cui sopra – avevano maturato i requisiti di pensione senza gli incrementi alla speranza di vita (di ulteriori cinque mesi) previsti, invece, da un decreto del Mef nel 2017.
Come spiega bene nel suo blog il sindacalista Benedetto Mineo, “i destinatari dei provvedimenti, in sostanza, sono coloro che sono andati in pensione dal 1° gennaio 2019 senza avere maturato quota 98 con due requisiti minimi: 62 anni di età 35 di contributi. Il rientro – assicura il dirigente – è comunque limitato al tempo necessario al completamento del periodo mancante (più o meno due mesi, salvo qualche caso limite). Non sono interessati da alcun provvedimento coloro che sono andati in quiescenza antecedentemente al 2019, coloro che sono andati con 40 anni di contribuzione”. La beffa è che i pochi malcapitati dovranno restituire i soldi della pensione. Con l’ultima Legge di Stabilità, fra l’altro, l’Ars ha corretto l’errore del 2019, prevedendo l’estensione di Quota 100 a tutti i dipendenti regionali, stavolta con una copertura a monte di quattro milioni l’anno.
L’assessore, da qui al prossimo 31 dicembre, dovrà inoltre invitare i singoli dirigenti regionali a far rientrare in ufficio i lavoratori che si trovano in smart working (circa 4 mila, il 34% del totale) in virtù delle nuove direttive romane. Una completa capovolta rispetto alle precedenti indicazioni, che avrebbe portato Palazzo d’Orleans a riorganizzare il lavoro a distanza fino a raggiungere il 60% nel 2022. Il decreto Proroghe del governo Draghi, invece, non si limita a intervenire sulle regole straordinarie applicate durante la pandemia, ma anche sul sistema organizzativo a regime del settore pubblico: per le attività che si possono condurre con modalità smart le norme sui piani organizzativi per il lavoro agile (i cosiddetti Pola) prevedevano che i dipendenti si potessero avvalere dello smart working “almeno per il 60%” nell’ambito dei piani organizzativi e per minimo “il 30%” in caso di mancata adozione dei Pola. Ora la percentuale del 60% sparisce e il minimo passa dal 30% al 15%.
Fra le tante magagne al tavolo di Zambuto, ultimamente, ce n’è una che appare quasi insuperabile: si tratta della P.E.O., la cosiddetta progressione economica orizzontale dei dipendenti, che è al centro di un braccio di ferro con i sindacati. L’accordo raggiunto con l’Aran nel 2019, in sede di rinnovo del contratto (è ancora fermo: ci torneremo) prevede uno “scatto d’anzianità” (e di stipendio, ma non di mansioni) solo per il 35% dei lavoratori del comparto non dirigenziale. Arriveranno a percepire da 30 a 80 euro in più al mese. Questo avverrà dopo il superamento di un quiz da trenta domande che si terrà online. “Non solo la Regione non è in grado di fornire a migliaia di dipendenti le dotazioni informatiche necessarie allo svolgimento della prova, come la webcam che è indispensabile per l’identificazione dei partecipanti, ma in generale – spiegano Giuseppe Badagliacca e Angelo Lo Curto del Siad-Csa-Cisal, unico sindacato a non aver firmato l’accordo – il percorso ipotizzato dalla Funzione pubblica è in contrasto con il contratto collettivo di lavoro, con l’accordo del dicembre 2019 e perfino con il Piano della formazione 2019 della stessa Regione. Insomma, un pasticcio vero e proprio dalle conseguenze imprevedibili e che va evitato: per questo chiediamo alla Funzione pubblica di tornare sui propri passi e all’Ispettorato di vigilare su quanto sta avvenendo”.
In effetti, come suggerisce la lettura di un altro sindacato (il Cobas-Codir), “l’accordo sulla P.E.O. doveva essere soltanto la prima fase di una progressione più ampia che avrebbe dovuto riguardare almeno un altro 50% dei lavoratori a partire dal 1 gennaio 2020 per un totale dell’85% ma, evidentemente, gli impegni assunti dalla predecessora dell’assessore Zambuto (Bernadette Grasso) e dalla stessa Aran Sicilia sono prova, ancora una volta, di tutta l’inadeguatezza di chi non sembra avere a cuore le sorti della P.A. regionale siciliana. Il mancato avvio delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro, quindi, si ripercuote pesantemente anche sull’intera vicenda delle progressioni orizzontali”.
Ecco cos’altro manca: il rinnovo del contratto dei dipendenti regionali. In effetti la misura è stata ‘coperta’ con 52 milioni nell’ultima Finanziaria, e proprio di recente l’assessore Zambuto ha rilanciato la questione nel processo di revisione dell’accordo con lo Stato. Ma fin qui non ci sono segnali concreti e, in ogni caso, bisognerà attendere la parifica della Corte dei Conti, slittata all’estate. Poi, forse, potrà cominciare la trattativa. Ma al centro del dibattito resta anche il rinnovo del contratto della dirigenza, che l’assessore Grasso aveva ultimato nel 2019 ma che la Corte dei Conti – nello scorso febbraio – ha palesemente bocciato ritenendo che “la relazione tecnico-finanziaria prodotta dall’Aran (l’agenzia di rappresentanza negoziale della Regione) presenta significative lacune informative in ordine agli elementi necessari per l’espressione di un giudizio di attendibilità dei costi contrattuali” e che “il quadro finanziario – al momento incerto – che emerge dai documenti di programmazione e bilancio, non consente di poter esprimere una valutazione di sostenibilità dei costi contrattuali illustrati nell’ipotesi di accordo”. Martedì prossimo è in programma un nuovo summit fra l’assessore e le sigle sindacali: “Nel corso della seduta – ha spiegato Zambuto – saranno programmati i lavori per la predisposizione delle direttive da inviare all’Aran per i rinnovi contrattuali e per definire il percorso che porti all’obiettivo della riclassificazione e riqualificazione di tutto il personale”.
La questione non è tanto tagliare, ma riqualificare. Anche Musumeci, nella missiva in cui chiede a Draghi di riconsiderare i termini dell’accordo Stato-Regione sottoscritto col suo predecessore (Conte), rivendica le “ineludibili esigenze di efficienza e rigenerazione dell’Amministrazione regionale, ferme e impregiudicate restando le esigenze di selettività professionale e specialistica”. E rilancia la questione dei concorsi, anche per i dirigenti, che fin qui hanno rappresentato un autentico tabù per la burocrazia siciliana. Fra l’altro, l’Accordo – che ha permesso alla Regione di poter spalmare in dieci anni il pesante deficit da 1,7 miliardi con Roma – prevede la “sospensione del reclutamento di profili dirigenziali” fino al 2023. Un paletto insopportabile e deleterio, considerati i pensionamenti imminenti e la velocità di crociera di questa macchina scassata. Va rivisto tutto, ripristinando il buonsenso ed evitando – comunque – di far strabordare i termini della spesa (vera preoccupazione del governo centrale). Zambuto, a tal proposito, ha predisposto un tavolo sull’innovazione e la rigenerazione della Pubblica amministrazione in Sicilia. Inoltre, allo scopo di scongiurare una protesta imminente, ha detto che “sarà mia cura emanare una specifica direttiva per procedere, entro dieci giorni lavorativi, al pagamento degli emolumenti accessori del 2019, sia per il comparto e che per la dirigenza”. Altri soldi arretrati. Altri sassolini in un ingranaggio al collasso.