Sulla capacità di spesa dei miliardi previsti dal Recovery Plan, di cui una prima tranche dovrebbe essere recapitata all’Italia entro l’estate (il 40%, complessivamente, finirà al Mezzogiorno), si deciderà il futuro della Sicilia. Tutto ciò avverrà se, come è lecito sperare, le istituzioni regionali sapranno uscire dalla comfort zone: cioè se la smetteranno di giocare a scaricabarile, rivendicare (senza costrutto) il gap atavico col resto del Paese e cercare una spalla su cui piangere. E’ un atteggiamento che non ha mai pagato, e che necessita di un’inversione di marcia. Mentre i politici siciliani continuano ad arrabattarsi per spostare l’attenzione sul Ponte di Messina, confinando il resto degli interventi – a partire dal consolidamento di porti e ferrovie – a mere etichette dovute, da parte del Ministro della Coesione territoriale, Mara Carfagna, sono arrivati un paio di avvertimenti.
“Il governo sta studiando diverse forme di sostegno, comprese task force di supporto, ma non può certo sostituirsi a chi, sul territorio, deve progettare e realizzare” ha detto la ministra a Repubblica. Poi ha rincarato la dose: “Più sono semplici, trasparenti ed effettive le regole, meno intrusiva e penalizzante è la burocrazia”. Non sono parole buttate lì a caso, anche perché c’è un seguito: “Il decreto Semplificazioni – ha detto l’esponente di Forza Italia, voluta da Draghi nel suo governo – sarà tra le prime riforme collegate al Recovery Plan ad andare in porto e aiuterà le Regioni a chiudere la stagione dei bandi infiniti. Sarà anche l’occasione per capire chi è amico dello sviluppo e chi no”. Da che parte saranno Musumeci e la Sicilia? In realtà i nostri esponenti politici appartengono, più per indole che per orientamento politico, alla categoria “lagne”. Si lagnano di tutto.
Tanto che nel giro di poche ore il vicepresidente Gaetano Armao, anziché avallare in pieno le tesi della Carfagna, e spingere sull’acceleratore per una “normalizzazione” delle pratiche (quando sarà il momento), ha preferito battere sul solito tasto: il Ponte. Dichiarando che è pronto a mettersi di traverso. “Noi e la Regione Calabria abbiamo detto che se non c’è il Ponte nelle misure di accompagnamento al Piano di ripresa e resilienza non daremo l’ok. Nel fondo complementare da 30,6 miliardi (a valere su fondi nazionali, ndr) il Ponte non c’è”. Oggi come oggi l’opera non può trovare applicazione nel piano d’aiuti predisposto dall’Europa: soprattutto perché, a differenza di quanto prevedono le linee guida comunitarie, non siamo in presenza di un progetto cantierabile, tanto meno i lavori potrebbero concludersi entro la deadline del 2026. Così la nuova prospettiva è inserirlo in questo fondo complementare d’interventi finanziato dal governo nazionale (che però non lo prevede).
La Sicilia, ed evidentemente anche la Calabria, insistono che sia l’unica soluzione per uscire dall’isolamento e, nel caso della Sicilia, per non essere considerata più una colonia. Ma quanto potrà pagare insistere o, addirittura, ‘sabotare’ il piano? Di fronte a quali argomentazioni, poi? E’ davvero assurdo pensare di poter concludere in cinque anni un’opera ingegneristicamente così complessa in cui si instillano parecchi dubbi (a partire dalle vibrazioni causate da eventuali movimenti tellurici, ma anche sull’impatto che avrebbe il vento sulla percorribilità di quei 3 km): soprattutto quando, nello stesso arco di tempo, non si è riusciti a rimuovere una frana dall’A18, all’altezza di Letojanni, o ricostruire un pezzo di viadotto sulla Palermo-Catania (l’Himera: ce l’hanno fatta il 31 luglio scorso). Ecco, basterebbero questi esempi a spiegare la lentezza delle procedure – non è mica solo colpa degli operai – che non conoscono alcuna semplificazione.
Per questo la Carfagna si è concentrata su questo punto: snellire la burocrazia, smussare problemi e lungaggini. Tornerebbe utile per tutto il resto, non solo per il Ponte sullo Stretto. Armao, però, ha sempre la risposta pronta: “Noi ci siamo portati avanti nel 2019 approvando la legge sulla semplificazione amministrativa, per altro con un sostegno trasversale. In questo, però, ognuno deve fare la sua parte: il modello Genova di cui parla Mara Carfagna, ad esempio, è cruciale perché, tornando al Ponte, Webuild può occuparsi dell’ingegnerizzazione, ma la semplificazione delle regole è compito della pubblica amministrazione”. La Sicilia aveva anche riformato il proprio Codice degli Appalti, che però ha subito un’importante battuta d’arresto alla Corte Costituzionale nello scorso febbraio, perché incompatibile con quello nazionale. Poi ha messo su una legge sulla sburocratizzazione, dopo quella sulla semplificazione già approvata nel 2019, che nell’intenzione dei proponenti – tra cui il presidente della I Commissione, Stefano Pellegrino – avrebbe consentito “sul modello EXPO e ponte Morandi”, di “realizzare opere infrastrutturali in pochi mesi, evitando l’interminabile maratona burocratica di grandi opere strategiche come il ponte Himera, la Ragusa-Catania, il porto di Marsala che, come tutte le opere pubbliche, si arenano spesso sulla spiaggia della burocrazia”. Ne è venuta fuori una legge a metà, distante dalle premesse, tanto che Musumeci, intervenendo a un tavolo con la Carfagna, ha sottolineato – come se niente fosse accaduto – che “serve una sburocratizzazione delle procedure: il Ponte Morandi di Genova diventi un metodo da esportare nelle Regioni del Sud”.
Agli annunci, in Sicilia, non seguono mai i fatti. Sono soltanto parole e lentezza che si accumulano. D’altronde non abbiamo nemmeno gli strumenti – materiali e immateriali – per poter approcciare a un mondo più smart, più green, più sostenibile: parole distanti anni luce dal nostro modo di fare e di governare. Basti pensare alla solita polemica sull’età media della pubblica amministrazione, che non servirà certo a costruire un Ponte, ma rappresenta la cartina di tornasole di una Regione imprigionata nel suo corpo malridotto. Il ritardo nella ricognizione dei fondi non vincolati giuridicamente, ad esempio, ha contribuito a un ritardo di mesi nell’erogazione delle risorse previste dalla Finanziaria di guerra del 2020: in mezzo c’è stato il ping pong con Roma sulla riprogrammazione della spesa. La prima proposta da parte della Regione è arrivata nel dicembre scorso, sette mesi dopo l’approvazione della Legge di Stabilità, mentre alcuni capitoli – come nel caso degli artigiani, dei fiorai o degli operatori sanitari – sono stati ufficialmente sbloccati qualche giorno fa.
‘Digitale’ e ‘innovativo’ sono due aggettivi che mal si conciliano con la realtà siciliana. Siamo indietro sotto il profilo delle competenze tecnologiche, tanto che per un semplice click day viene naturale rivolgersi a operatori esterni, che anch’essi falliscono (come avvenuto alla Tim per il Bonus Sicilia). O per dare una mano ai comuni nella gestione e programmazione dei fondi comunitari, ci troviamo di fronte alla necessità di assumere 300 neolaureati (viva Iddio) con contratto da precari (per tre anni), e ‘bucare’ i termini dell’accordo Stato-Regione, che in teoria prevede il blocco delle assunzioni.
E che per lo stesso motivo – la carenza di personale, l’impossibilità di sostituire i dirigenti sulla via del pensionamento, il vuoto normativo sulla riforma della pubblica amministrazione – ci siamo rivolti al ministro Brunetta, chiedendo di aprire una trattativa per rivedere in toto i termini di quel patto. L’assessore Zambuto ha ottenuto l’insediamento di tre tavoli: uno che si occupi di rigenerazione dell’amministrazione regionale con riferimento alle deroghe assunzionali, riclassificazione e riqualificazione del comparto, rinnovo dei contratti del comparto e della dirigenza; un altro che si concentri su innovazione, digitalizzazione e “lavoro agile” per un maggiore efficientamento e produttività dell’amministrazione regionale; il terzo, per la risoluzione delle problematiche connesse alle difficoltà finanziarie e alle carenze degli organici degli enti locali in disequilibrio e in dissesto finanziario. I ragionamenti ci hanno portato lontanissimi dal Ponte, dalla frana di Letojanni, dal Recovery. Dal superamento delle storture burocratiche. Ma per imbastire un’opera teatrale servono gli attori e il copione: discernere gli uni dall’altro è tecnicamente sbagliato, oltre che deleterio. La politica, invece, dovrebbe assumere responsabilmente il ruolo di regista. Leggi semplici per persone capaci: è l’unico modo per venirne fuori.