Chi sognava in grande è rimasto deluso. Su tutti la Regione, che si era battuta a suon di conferenze e dichiarazioni partigiane, per inserire nel Pnrr (piano nazionale di ripresa e resilienza), presentato da Draghi alle Camere, il solito Ponte sullo Stretto. Ma niente, il Ponte non s’ha da fare. Non così. L’opera, dal valore di sei miliardi di euro, non potrebbe completarsi prima del 2026, la deadline fissata dall’Unione Europea, che a questo giro punta su progetti già cantierabili. Pur conoscendo i criteri fissati dalla Ue, la Sicilia – in fase di proposta – aveva voluto esagerare. Cercando di rientrare dal gap atavico col resto del Paese (specie a livello infrastrutturale) con una serie di investimenti faraonici. Il Ponte sarebbe stato la ciliegina sulla torta, ma qualche giorno fa, con la pubblicazione del documento finale del Recovery Plan, ci siamo accorti che manca persino la torta.
Il lavoro imbellettato da Musumeci, dopo aver sentito i componenti della sua maggioranza, è stato cestinato quasi in toto. Non ci sarà nemmeno l’aeroporto internazionale di Milazzo, una proposta avanzata dal capogruppo di Forza Italia, Tommaso Calderone. In realtà il cosiddetto “Aeroporto del Mela” esiste già dal 2007, su Facebook però. All’epoca era nata una società consortile, la Aeroporto del Mela S.c.a.r.l. – l’equivalente della Stretto di Messina spa – per tentare di portare politica e istituzioni tutte dalla stessa parte e dare seguito al grande progetto immaginato dal presidente della provincia, Turi Leonardi, che riuscì a far sottoscrivere un Accordo di programma fra l’ente di area vasta, la Camera di Commercio, l’Asi e 60 comuni. La visione di Leonardi si basava sullo studio dell’ingegnere Franco Karrer, già presidente del Consiglio nazionale dei Lavori pubblici, che esprimeva apprezzamento sull’ubicazione dello scalo, capace di connettersi con l’autostrada, la ferrovia e il porto. Nessuno, però, ha dato seguito alla brillante idea. Finché, col Recovery alle porte, qualcuno ha deciso di ritirare fuori il vecchio sogno. Che rimarrà tale.
Fuori dai finanziamenti dell’Unione – che garantisce all’Italia 220 miliardi, in parte a fondo perduto – rimane anche il porto hub di Palermo, per cui esisteva già un progetto presentato nel 2019 da Eurispes, che, nonostante l’iniziale apprezzamento da parte del governatore Musumeci, sbatte evidentemente su costi difficili da sostenere: 5 miliardi di euro. Ma garantirebbe al capoluogo siciliano di accogliere fino a 16 mila container al giorno e di dare lavoro a circa 400 mila persone. Ne ha parlato più volte anche l’ex ministro Saverio Romano, che di Eurispes è il responsabile del dipartimento Mezzogiorno: “Se le istituzioni vogliono davvero privilegiare il bene comune e realizzare l’opera, ci saranno investitori privati che faranno la fila per investire in un’infrastruttura ad alta redditualità come quella di un porto hub – aveva detto il leader del Cantiere Popolare a Buttanissima -; se viceversa la politica e le istituzioni non sapranno essere all’altezza, è ovvio che i 5 miliardi non arriveranno mai da nessuno, perché nessuno avrà interesse a mettere piede in Sicilia”.
Il giudizio è tuttora pendente, ma una cosa è certa: Musumeci, più volte invitato da Romano, non ha coltivato la speranza di realizzare “la più grande piattaforma logistica del Mediterraneo”. Non l’ha mai discussa in giunta, nonostante i ripetuti inviti del leader del Cantiere Popolare. E nel Recovery, la proposta di un porto hub è stata estesa ad altre realtà, fra cui Marsala, che da sempre avrebbe voluto riconvertire il proprio, e Augusta. L’opzione Palermo è sparita. Tuttavia, anche gli altri contenders sono stati snobbati dal governo nazionale, più o meno sulla falsariga del Ponte. Eppure qualche intervento sui porti è previsto: a partire dall’elettrificazione delle banchine del molo di Messina (una proposta fatta a suo tempo dagli ambientalisti) che permetterà alle navi di ormeggiare tenendo spenti i motori, passando per il rafforzamento del porto di Catania e per il collegamento ferroviario che renderà più accessibile quello di Augusta.
Qualche giorno fa, invece, il sottosegretario alle Infrastrutture, Giancarlo Cancelleri, ha elogiato il lavoro del presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia occidentale, Pasqualino Monti, per aver portato avanti la riqualificazione del porto di Palermo, definito una punta di diamante: “Qui sono stati investiti nel tempo oltre 500 milioni di euro per opere già concluse ed opere in via di realizzazione – ha detto Cancelleri -. Palermo sarà la prima Autorità di Sistema Portuale che godrà nel suo interno di un sito Unesco, un bene di incredibile valore culturale. Nel porto verranno sviluppate attività commerciali che renderanno Palermo il porto per eccellenza della Sicilia. Vogliamo portare nel capoluogo di regione oltre un milione e mezzo di passeggeri all’anno! Una importante novità, frutto dell’idea intelligente del presidente Monti – ha ribadito il sottosegretario – è quella di far diventare Palermo non solo un porto di attracco per le navi crociere ma anche di partenza. I passeggeri non resteranno così solo poche ore in città ma anche intere giornate”. Il destino è segnato, e per i container non sembra esserci abbastanza spazio.
Fra le tante aspettative alimentate da Musumeci con la scusa del Recovery Fund, è tramontata l’ipotesi di un centro di produzione cinematografica nell’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese (dove in questi giorni si sta valutando, non senza difficoltà, il prossimo piano di industrializzazione per non lasciare a spasso 900 operai); così come il Centro di Tecnologie e Astrofisica spaziale del Parco dei Nebrodi; ma anche la funivia per collegare il versante nord dell’Etna con il fiume Alcantara. Per non parlare dell’acquario di Messina, cassato in partenza. Il piano, che era già smantellato (in parte) dal precedente governo, non ha ammesso deroghe rispetto alla visione “realistica” imposta dal presidente del Consiglio, Mario Draghi. Mentre, fra le poche istanze siciliane ad essere ammesse (non si parla di opere galattiche, ma di cultura) trovano spazio la realizzazione di un auditorium, a Palermo, nell’ex Manifattura tabacchi, e il “Progetto integrato di restauro, fruizione e valorizzazione” del castello della Colombaia di Trapani, elaborato dall’assessorato regionale dei Beni Culturali diretto da Alberto Samonà, bravo a sfruttare la sponda della sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni.
Tornando per un attimo alle Infrastrutture, l’obiettivo del governo nazionale è fare in modo che la Sicilia sia attraversata in treno: e a tal proposito sono tanti gli investimenti già in programma. Come la velocizzazione della linea Catania-Messina-Palermo: i tempi di percorrenza fra i due centri più grossi dell’Isola verrà ridotta di un’ora. Anche attorno alla Gela-Catania, che comprende anche il Ragusano, si concentrano molte occasioni di sviluppo. Inoltre sarebbe interessante, sul modello Fontanarossa (dove la stazione è stata appena inaugurata), dotare pure Birgi di un collegamento ferroviario. E’ rimasto un po’ freddino, da parte dell’esecutivo nazionale, l’interesse per la situazione stradale, a tratti macabra, dell’Isola (l’esclusione del completamento dell’anello autostradale fra Castelvetrano e Gela ha alimentato qualche dissapore anche nel Pd). Mentre è stato letteralmente snobbato l’impegno sul collegamento stabile fra Calabria e Sicilia, l’amato Ponte.
Semmai qualcuno ritenesse di doverlo fare, bisognerà trovare i soldi altrove. In questi giorni Musumeci ha riannodato i contatti con la società Webuild, l’ex Impregilo-Salini a cui era stato affidato il progetto dal governo Berlusconi. La quale, però, aveva aperto un contenzioso con lo Stato, chiedendo un maxi risarcimento da 700 milioni, dopo che Monti nel 2013 fece saltare tutto. Fino a pochi giorni fa, l’ad Pietro Salini ha spiegato che “noi siamo pronti a partire, anche domani”. Il dubbio più grande è chi paga. Secondo una recente ricostruzione del quotidiano ‘La Sicilia’, lo scoglio non è insuperabile: “Se WeBuild assicura di poter sostenere l’investimento (circa 4 miliardi) della “pura” costruzione del Ponte, restano quasi 2 miliardi di infrastrutture di terra, finanziabili con fondi che, se non dovessero ricevere ad hoc da Ue e Stato, Sicilia e Calabria potrebbero coprire in parte con risorse proprie e soprattutto rivolgendosi al mercato finanziario”. E’ davvero l’ultimo, faticoso tentativo per dimostrare che alla parole si riesce, ogni tanto, a far seguire i fatti. Anche senza lo scudo del Recovery.