A turbare le vicende di un governo poco in linea con le aspettative generate in campagna elettorale, tre anni e mezzo fa, ci si è messa di nuovo la magistratura. L’inchiesta sui dati falsati del Covid, che ha condotto alle dimissioni dell’assessore alla Salute, Ruggero Razza, e all’arresto della dirigente del dipartimento Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico, Maria Letizia Di Liberti, ha inferto un duro colpo a Musumeci. Non solo all’esecutivo, già indebolito da alcune inchieste che, soprattutto nei primi mesi della legislatura, avevano coinvolto un terzo della giunta (da Turano a Falcone, da Lagalla a Cordaro); ma soprattutto all’aspirazione del presidente di rivoltare la Sicilia come un calzino dopo i cinque anni di Crocetta, culminati con la scoperta di un “governo parallelo” e di un abilissimo burattinaio, Antonello Montante, poi condannato per corruzione.
La storia dei governi regionali, malinconicamente, si intreccia alle vicende giudiziarie dei suoi protagonisti. Avviene ormai da una ventina d’anni. Da quel vassoio di cannoli che l’ex governatore Totò Cuffaro, atteso dai giornalisti per discutere della condanna in primo grado a 5 anni per favoreggiamento (ma senza l’aggravante del metodo mafioso), spostò inavvertitamente da un tavolo, dando la sensazione di festeggiare. Apriti cielo. L’ex presidente della Regione, coinvolto nello scandalo delle talpe alla Direzione distrettuale antimafia (che parte da Michele Aiello, proprietario di cinque cliniche, un big della sanità privata), resistette a una mozione di sfiducia del centrosinistra, ma entro un paio di giorni, il 26 gennaio 2008, decise di dimettersi, proseguendo altrove la sua attività politica. Fu vana gloria. Cuffaro, in seguito, sarebbe stato condannato a 7 anni per aver favorito Cosa Nostra e fu costretto a dimettersi anche dal Senato della Repubblica, nel 2011, a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione. Quel giorno, era il 2 febbraio, si costituì spontaneamente a Rebibbia, dove sconterà poco meno di cinque anni.
Persino il suo successore, Raffaele Lombardo, nonostante volesse incarnare un elemento di rottura, e si fosse presentato a palazzo d’Orleans denunciando l’intervento della mafia sul mega affare degli inceneritori voluto da Cuffaro, è finito nella polvere quasi subito. E non c’entrano nulla gli schiribizzi governativi, che lo portarono a cambiare governo quattro volte. C’entra un articolo pubblicato il 29 marzo 2010 su Repubblica, da cui emerse che Lombardo, assieme al fratello Angelo, era indagato dalla procura di Catania per concorso esterno in associazione mafiosa. Che ci crediate o no, il processo è ancora in corso. Il primo verdetto del 31 marzo 2017, che condannava Lombardo per voto di scambio (ma cancellava l’accusa di concorso esterno) è stato “annullato” dalla Cassazione che ha disposto la ripetizione del procedimento. Oggi siamo quasi al punto di partenza, e alla richiesta della Procura di Catania: 7 anni col rito abbreviato. E con Lombardo che continua a difendersi, sostenendo che “dopo undici anni di processo, basato soltanto su falsi pentiti, attendo di sapere cosa avrei pattuito, quali vantaggi gli avrei procurato e quali consensi ne avrei avuto”, ha detto con riferimento alla criminalità organizzata.
Il governatore di Grammichele aveva scelto di dimettersi dalla carica il 12 luglio 2012, tre mesi dopo che il gip di Catania aveva disposto per lui l’imputazione coatta, dopo una prima richiesta di archiviazione da parte della Procura. Si sentì un perseguitato, così decise di lasciare Palazzo d’Orleans prima della scadenza del mandato. Mentre la Regione attraversava una delle prime, grosse crisi finanziarie – l’assessore al Bilancio dell’epoca era lo stesso di adesso – che rischiavano di condurla al default: “Mi ero impegnato perché nessun verdetto di un giudice raggiungesse il presidente della Regione – disse Lombardo, congedandosi – adesso do seguito a questo impegno. Da più parti mi è stato chiesto di non dimettermi, ma io oggi farò seguito a ciò che avevo detto da tempo: che affronterò il giudizio del giudice da cittadino e non da presidente della Regione”. Poi l’autodifesa e la rivendicazione di risultati raggiunti: “Mai come in questi trascorsi quattro anni sono stati intaccati gli interessi illeciti e criminali di questa Regione. Al presidente – ha aggiunto – non è stato consentito di essere interrogato. Ho parlato in aula, con la stampa. Per ben tre volte la procura ha chiesto l’archiviazione, un processo è stato interrotto alla vigilia della sua conclusione e non è stato richiesto un rinvio a giudizio”.
La giustizia, spesso, è d’intralcio. Quando si manifesta, “inquina” e condiziona le vicende politiche di una terra e di un governo irredimibili. Con Crocetta, però, si è manifestata postuma, ha fatto il giro largo. Si è soffermata, dal 2015, sulla figura di Antonello Montante, convinto esponente della gang dell’antimafia, uno che faceva “la terza guerra mondiale” coi milioni delle Attività produttive. L’imprenditore di Serradifalco, nel Nisseno, è finito ai vertici di un’associazione a delinquere che comprendeva diversi esponenti delle forze dell’ordine e del mondo della politica. La leva del potere. A conclusione della seconda tranche dell’inchiesta, qualche giorno fa a Caltanissetta, è emerso che pure Crocetta (indagato) si sarebbe messo a disposizione di Montante “asservendo agli interessi di quest’ultimo e dei soggetti a lui legati gli apparati dell’amministrazione regionale sottoposti, direttamente indirettamente ai suoi poteri di indirizzo vigilanza e coordinamento”.
L’ex sindaco di Gela, oggi di stanza in Tunisia, avrebbe compiuto “una pluralità di atti contrari ai doveri di ufficio per assecondare le loro richieste e i loro interessi. In cambio – sostiene l’accusa – avrebbe ricevuto la corresponsione, a titolo di finanziamento della propria campagna elettorale, di una ingente somma di denaro contante, ammontante a 200 mila euro cadauno”. E poi c’è la storia del video hard, smentito dagli avvocati dalla difesa. Una bufala, forse, come la telefonata del medico personale, Matteo Tutino, che invocava per l’assessore (anch’ella alla Sanità) Lucia Borsellino, la stessa fine del padre? Ma soprattutto restano le parole (bellissime, contro la mafia), e i fatti che vanno in tutt’altra direzione. Anche se, a prescindere dal “governo parallelo” e asservito agli scopi del Montante, la sciagura di Crocetta è politica. Si è palesata nell’incapacità di gestire una coalizione, di saper scegliere le persone (ne sono prova i 59 assessori in cinque anni), di saper promuovere una politica di cambiamento (non quella spregiudicata e populista che ha portato all’abolizione delle province o al licenziamento dei giornalisti dell’ufficio stampa). Invece, il baratro.
L’esperienza crocettiana ha messo a nudo in modo goffo i limiti della Sicilia. Tanto da spianare la strada a Musumeci. Impossibile fare peggio, si diceva. Ma forse – sarà la pomposità delle aspettative, o l’inadeguatezza degli interpreti – anche i risultati di questo governo “catanese” sono al di sotto delle aspettative. Nemmeno sufficienti. Fino a ieri, c’era l’alibi della pandemia. Ma anche quella, stando alle carte della procura di Trapani, è stata affrontata con poca sensibilità e tentando di legittimare un percorso virtuoso che così virtuoso non era. Lo spiega il Gip della sua ricostruzione: “Si è cercato di dare un’immagine della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale e della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera Regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende anche in termini di perdita di consenso elettorale per chi amministra”. Ma al di là di un tentativo maldestro su cui toccherà ai giudici fare luce, la batosta delle intercettazioni, la superficialità di certe confidenze, le difese corporativiste (e senza troppa convinzione) ribadiscono che, in fondo, nulla è cambiato. Continuiamo a perseverare negli errori, nelle furbizie, nei compromessi. Di questo “stile”, la sanità rappresenta l’affresco più fedele: un coacervo di interessi inespugnabile, che condiziona e orienta le scelte della politica.
L’indagine a carico dell’assessore Razza, oltre ad alimentare i luoghi comuni sulle nostre istituzioni, ha un effetto nefasto per Musumeci, che dovrà rinunciare al suo collaboratore più fidato; per l’assessorato alla Salute, rimasto mondo nella catena di comando, e per di più in un momento critico come quello della battaglia al virus; sull’opinione pubblica, intaccata nella fiducia verso i propri rappresentanti. Ancora una volta – in attesa di capire se prevarrà il penale o un semplice malcostume – la giustizia è arrivata prima. Mentre la politica, nelle sue articolazioni, ha dimostrato di non saper gestire l’emergenza. Di non sapersi guardare alle spalle. E talvolta, nemmeno allo specchio.