La transizione (non solo ecologica) è quasi completa: in poche settimane, siamo passati dal ritmo tambureggiante delle apparizioni di Conte, alla compostezza esagerata di Draghi (che ha contingentato le apparizioni con la stampa); dal maglioncino in cashmere di Arcuri ai galloni sulla divisa di Figliuolo. Ma ci sono certe cose che non cambiano e che anche il nuovo premier, a denti stretti, ha dovuto mandare giù. La tassa da pagare ai Cinque Stelle si chiama, come ovvio, Reddito di cittadinanza. Poiché rispetto al 2019 le erogazioni del sussidio di Stato sono aumentate del 38%, è stato necessario nell’ultimo decreto sostegni – a proposito: prima si chiamavano ‘ristori’ – rifinanziare la misura per un miliardo di euro. In questo miliardo è compresa pure la proroga dei 2.700 navigator fino alla fine dell’anno. Guadagnano 1.700 euro al mese più i rimborsi spesa.
Si tratta di professionisti capaci, con titoli eccellenti (la maggior parte proviene da una laurea in Giurisprudenza), che per primi hanno rischiato di rimanere a piedi, creando una nuova sacca di precariato, a causa di una misura che non funziona. Almeno per com’era stata concepita. Ossia, uno strumento di politiche attive del lavoro. Ma questo reddito all’attivo ha solo grandi scandali. Come in Sicilia, dove parecchi boss e picciotti di mafia, se ne sono appropriati senza dichiarare le condanne ricevute negli ultimi dieci anni. E l’hanno fatta franca, raggirando lo Stato per fior di milioni. Ma al di là di questi casi limite, che ogni giorno riempiono le cronache provinciali, ci sono anche le cattive abitudini dei “divanisti”. Cioè di coloro che, incassato l’assegno, non hanno più voluto saperne di cercarsi un impiego. E ogni qual volta si presenta un’opportunità – soprattutto grazie ad alcuni Comuni, che hanno avviato i piani di utilità collettiva (Puc) – hanno la faccia tosta di tirarsi indietro. Il reddito è spesso diventato un privilegio, e soprattutto in questa fase di pandemia, dove tantissimi vi hanno ricorso, è anche l’emblema di una frattura sociale insanabile: fra chi guadagna stando seduto sul divano, e chi non guadagna più nulla per aver chiuso o perso la propria attività.
Un privilegio che lo Stato, in qualche modo, tutela. Fra i decreti attuativi mai entrati in vigore ce n’è uno che prevede la decadenza dal beneficio dopo aver rifiutato tre offerte di lavoro. Doveva essere uno dei capisaldi, invece, è quasi diventato uno scudo. L’abbattimento della condizionalità permette all’ingiustizia di proliferare. Anche i risultati dei navigator non sono affatto brillanti. L’ultimo report fornito dall’assessore al Lavoro della Regione siciliana, Antonio Scavone, lo conferma: dei 58.804 disoccupati presi in carico dai navigator, solo 5.220 hanno trovato lavoro; 5.581, invece, sono state le proposte di politiche attive di cui 1.758 con esito positivo. Non hanno funzionato neanche i navigator: un po’ per la pandemia, che li ha costretti a lavorare da casa; un po’ per l’indolenza dei propri interlocutori, che si sono sottratti al colloquio professionalizzante; e un po’ anche per la carenza di infrastrutture informatiche. Impossibile incrociare domanda e offerta. E qui viene a galla il vero responsabile: ossia il direttore di Anpal, l’agenzia delle politiche attive del lavoro, Mimmo Parisi.
Lui, a differenza del maglioncino in cashmere di Arcuri, non è ancora passato di moda. E anzi, come racconta il Foglio, in questi giorni sta provando a rifilare allo Stato l’ennesima fregatura: un’app denominata Italy Works, sul modello Mississippi (dove Parisi insegna) che costa uno sproposito: 25 milioni di euro. E’ proprio quella che permetterebbe ai navigator di incrociare domanda e offerta, ma che a giudizio di Ernst & Young, una grossa società di consulenza a cui l’Anpal ha chiesto un parere, potrebbe essere rimpiazzata da un software un po’ meno costoso. Sulle 600 mila euro, per intenderci. Parisi, che un paio d’anni fa aveva fatto stanziare a Invitalia i fondi per Italy Works, giovedì scorso aveva convocato un Cda per chiudere l’affare, ma l’incontro è stato bruscamente interrotto per gli impegni di alcuni partecipanti. Se ne riparlerà a breve. Parisi spera il prima possibile, o comunque alla vigilia della sua audizione alla Corte dei Conti, in cui dovrà rendere edotti i giudici delle spese sostenute – ovviamente a carico dello Stato – per spostarsi dall’Italia agli Stati Uniti in business class.
Colui che avrebbe voluto salvare gli italiani dalla povertà, è un prodotto della scuola Di Maio, a cui nessuno per il momento di sogna di rinunciare. Eppure, nel suo percorso italiano, ha già fatto registrare parecchi inciampi. Ad esempio, per la presunta incompatibilità del suo incarico. Il direttore della National Strategic Planning and Analysis Research Center, infatti, raramente si vede a Roma. Trascorre le sue giornate negli Stati Uniti, dove insegna all’università del Mississippi (MSU). Un impiego borderline, dal momento che lo statuto di Anpal, in riferimento al ruolo del presidente, all’articolo 5 spiega che “è incompatibile con altri rapporti di lavoro subordinato pubblico o privato”. Una questione sollevata anche in Parlamento, ma “insabbiata” dai Cinque Stelle, a cui Parisi ha sempre riferito di essere nient’altro che un consulente. Versione smentita dagli americani, secondo cui il paisà sarebbe un dipendente dell’Università con contratto part-time, che ha il compito sviluppare affari e interessi della MSU in Europa. Eppure Parisi resta al suo posto: con uno stipendio da 176 mila euro l’anno e rimborsi che variano da 140 a 160 mila euro per i viaggi in America.
I suoi rapporti con il neo ministro del Lavoro, Andrea Orlando, non sono idilliaci. E, più in generale, l’approccio dell’esponente del Pd al capitolo “assistenzialismo” è meno accondiscendente rispetto ai suoi predecessori (Di Maio e Catalfo). Uno dei primi atti è stata la costituzione del comitato tecnico-scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, previsto fra l’altro dalla legge. A capo della struttura è stata nominata la professoressa Chiara Saraceno, sociologa e accademica di spessore. Una settimana fa ha detto che “Parisi non è la persona adeguata a guidare l’Anpal”. Più di recente è stato il turno di Chiara Gribaudo, nominata alla guida del dipartimento Giovani della segreteria di Enrico Letta: “Al vertice dell’Anpal c’è urgente bisogno di un cambio di rotta che non può non passare dall’ammissione della fallimentare gestione di chi l’ha presieduta negli ultimi due anni”.
Salutare Parisi sarebbe l’ennesima sconfitta del M5s, che nel passaggio da Conte a Draghi, ha rischiato di lasciare per strada mezzo partito. E ha già dovuto rinunciare a posizioni di primigenia nel governo (specie a livello di rappresentanza: i grillini siculi sono fra i più incavolati). Eppure il sottogoverno c’è e resiste. Con i soliti interpreti del fallimento. Ad esempio il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che è stato l’inconsapevole protagonista del primo flop day sulla misura dei 600 euro per professionisti e partite Iva, messi a disposizione dal governo nazionale per sopperire ai primi danni del Coronavirus. Il sistema è andato in tilt, si disse a causa di un hacker, con la conseguente violazione dei dati sensibili di tantissimi richiedenti (sulla piattaforma piombarono 300 domande al secondo: crash garantito). In quell’occasione, Tridico fu anche il primo a instaurare un clima da “caccia alle streghe” per aver svelato che alcuni parlamentari avevano avuto accesso all’aiutino, svelandone l’identikit.
Proprio qualche giorno fa, l’Autorità Garante della Privacy ha inflitto all’Inps una multa da 300 mila euro per la “gestione opaca” nel rintracciare chi avesse davvero i requisiti per accedere al bonus. Che figura! Sulla testa di Tridico, nel recente passato, sono piombate anche altre accuse: ad esempio, quella di essersi più che raddoppiato lo stipendio (da 62 a 150 mila euro l’anno). L’economista di riferimento del Movimento 5 Stelle si è difeso spiegando che il procedimento era stato innescato, ovviamente a sua insaputa, dal governo gialloverde nel 2019. Entrato da subito nel mirino dei renziani – anche per le lungaggini dell’erogazione della cassa integrazione in deroga – non ha mai voluto saperne di dimettersi.
Un altro che non passa mai di moda – nemmeno con Draghi – è il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, che è finito persino sulla lista dei “sospetti” del Fatto Quotidiano, l’organo di stampa più vicino ai Cinque Stelle. Da dove questo legame indissolubile coi grillini? E perché il passato di Di Mare, come svelato da alcune inchieste, non è stato setacciato come gli altri prima dell’incoronazione a direttore di rete? Prima di epurare dalla trasmissione da “Cartabianca” l’opinionista Mauro Corona a causa di affermazione sessiste (diede della “gallina” a Bianca Berlinguer), e nonostante il perdono accordato dalla giornalista, Di Mare si era reso celebre per altre circostanze: come alcune palpatine in diretta (sviscerate da Striscia la Notizia), la finta intervista a un pentito di mafia, o per aver sponsorizzato senza permesso una linea di pannolini. Mr Pampers, come l’hanno ribattezzano sul Fatto, usa la Rai come il soggiorno di casa. Grazie al suo legame, incrollabile, con i poteri forti.