Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd sono figlie di una debolezza recondita; di una cultura post-comunista in cui “il partito è la chiesa, un luogo sacro nel quale il capo ha sempre ragione”. Totò Cardinale esclude in partenza l’ipotesi del bluff, o che il governatore del Lazio utilizzi la strategia della pietas per uscirne rafforzato di fronte all’Assemblea: “Sarebbe grave. Ma ritengo Zingaretti una persona in buona fede e lineare: se fa qualcosa è perché ci crede – annuisce l’ex Ministro delle Comunicazioni –. E’ cresciuto con “Il Capitale” di Marx sottobraccio, proviene dalla convinzione culturale che ‘io sono il partito, io sono la verità e nessuno può disturbare il manovratore’. Ritengo impossibile che ritiri le dimissioni”.

Quindi il colpevole è Zingaretti e non le correnti.

“Zingaretti non può dire che si vergogna del suo partito perché si parla solo di poltrone. E non può andare via sbattendo la porta perché qualcuno gli chiede più spazio all’interno. Non faccio l’avvocato di Lotti e Guerini – me ne guardo bene – ma non è mica un peccato mortale… Questo tentativo di uscirne da eroe fa un danno enorme al Partito Democratico, che è stato la dorsale della politica riformista-progressista del nostro Paese”.

Qual era l’alternativa alle dimissioni?

“Riunire gli Stati generali con una propria relazione, aprire una discussione libera e vera e, in mancanza di un accordo convincente fra tutte le anime del partito, convocare il congresso, salutare e dedicarsi ad altro. Non mi piace sindacare sul comportamento di nessuno, ma se lei mi chiede un’analisi non mi tiro indietro. Nella mia cultura politica, la critica, la proposta e, se vuole, il confronto animato per la leadership, sono considerati lievito per la crescita. E quindi un segretario dovrebbe accettare di buon grado le critiche, anche se dure. Se vengo eletto e dispongo di un’ampia maggioranza, non posso andare via sbattendo la porta, e dicendo che è colpa delle cattiverie e delle nefandezze altrui. Semmai, ammettendo di aver fallito”.

E quindi torniamo al peccato originale. Il Pd, bruciando l’ennesimo segretario, non si dimostra in grado di reggere il peso delle correnti. O del pluralismo.

“Da segretario regionale della Margherita, fui anch’io tra i fondatori del Pd. All’epoca si pensò di dar vita a un partito plurale che mettesse nell’armadio le divise del passato e sfidasse il nuovo millennio con una veste riformista, popolare, liberale e progressista. Ma la convivenza forzata tra due anime, Margherita e Ds, risultò assai difficile. Inoltre, la costruzione di un partito a vocazione maggioritaria come quello voluto da Veltroni, si è rivelata ben presto perdente, pur avendo il Pd ottenuto il 33% dei voti, che via via, per altro, sono scemati al punto da non raggiungere la somma dei consensi dei due partiti fondatori”.

Come funziona in un partito normale?

“Rutelli, nella Margherita, fu bersagliato più volte, ma non per questo decise di mollare tutto. Si discuteva, si ragionava e si cercava sempre un punto di caduta che mettesse insieme tutti”.

Con l’avvento del Pd si ricordano, invece, solo addii polemici.

“Veltroni si era posto il problema di somigliare ai democratici americani, per cui tutto doveva essere risucchiato all’interno di un’unica componente. Ci riuscì, tranne che con Di Pietro. Si trattava, però, di un partito aereo, senza strutture, che arrivava nelle case degli italiani secondo i nuovi modelli di comunicazione. Un’operazione fallimentare, che determina il vuoto attorno al Pd e lo rende isolato e destinato a una sorta di opposizione permanente. Guardi cosa avvenne in Sicilia, la sproporzione tra i voti presi da Rita Borsellino nel 2006 e da Anna Finocchiaro nel 2008: ci furono undici punti di differenza. Significa che qualcosa non andava. Da lì a qualche mese Veltroni lascerà in maniera inconsulta e traumatica”.

Poi arriva Bersani…

“E rovescia completamente il modello di Veltroni: è il tempo della Ditta”.

Renzi, invece, vuole rottamare tutto.

“Ha trasformato il Pd in un partito leaderistico, con una connotazione populista, con cui cerca di calamitare consensi al centro. Dopo aver ottenuto il 41% dei voti, ritengo avrebbe fatto bene a dare vita a un nuovo soggetto politico, liberando così le enormi contraddizioni interne. Invece pensò di utilizzare quello stesso strumento, tentando di averne il pieno dominio e facendolo attraverso il referendum del 2016. Il sì o il no, in quella occasione, non erano rivolti al quesito referendario, ma alla sua persona e alla sua politica. La investitura popolare alla sua leadership non arrivò e il risultato lo conosciamo tutti. Le Politiche del 2018 rappresentano l’atto finale di un disastro”.

Almeno Zingaretti avrà qualche merito oppure no?

“Con lui il Pd recupera forza e credibilità, vincendo in alcune regioni, a partire dall’Emilia Romagna. Non è stato un grande successo, ma il partito ha retto. Ed è ingeneroso chi afferma che sia stato merito solo dei governatori uscenti”.

L’alleanza coi Cinque Stelle è uno snodo cruciale di questa segreteria.

“Un partito, da solo, ha poche prospettive. Per cui ha fatto bene ad allearsi coi Cinque Stelle, inducendoli a rivedere le posizioni sull’Europa. In più, c’era l’ipotesi di un nuovo partito centrista, guidato da Conte, per il quale anch’io, nel mio piccolo, mi ero speso con Tabacci. C’era, insomma, la possibilità di immaginare un nuovo tragitto. Ma Renzi, che aveva già capito l’antifona, ha pensato di demolire tutto”.

Non crede che schiacciarsi su Conte sia stato un errore?

“In effetti la sovra esposizione di Bettini – ‘o Conte o morte’ – non ha giovato. Anche in questa prima fase di governo, anziché cavalcare la svolta europeista e anti-sovranista di Draghi, nel Pd sono rimasti imbambolati. Facendosi scavalcare da Salvini, che era uscito a pezzi dalla formazione del nuovo esecutivo, ma che con la sua duttilità è riuscito a riprendersi la scena”.

Quali sono le prospettive del Partito Democratico?

“Farà molta fatica a riprendersi da questa batosta e non escluderei che si rompa tutto: sarebbe salutare”.

Una scissione?

“Una presa d’atto che non c’è possibilità di stare insieme”.

Lei ha detto che si è speso, nel suo piccolo, per un partito di Conte.

“Oggi uno schieramento è in grado di competere e, possibilmente, di vincere se vanta al suo interno una forte componente di centro. Qualcuno si rifiuta di ammetterlo, ma è così. Sa che il partito di Conte aveva suscitato un forte interesse anche in Sicilia?”.

Parliamo di politica regionale. I suoi amici di Sicilia Futura (poi confluiti in Italia Viva), Edy Tamajo e Beppe Picciolo, hanno indicato Daniela Baglieri all’Udc. Significa costruire un asse con l’Udc e affinare l’intesa con la maggioranza di centrodestra. O no?

“Non ho letto o sentito di una proposta politica, né me ne ha parlato qualcuno. Forse perché da tre anni sono fuori dal giro. Per convinzione personale e in ragione di profonde delusioni, decisi di farmi da parte all’indomani della campagna elettorale delle Politiche, chiarendo che non c’era più alcun interesse a lavorare per Sicilia Futura. Ho perciò lasciato i miei amici liberi di fare le scelte più opportune. Non credo, però, che la scelta della Baglieri possa essere intestata a Picciolo, anche perché la sua prima dichiarazione da assessore, che ho considerato un atto di genuflessione nei confronti dell’Udc, mi ha tolto ogni dubbio”.

Non le chiedono più dei consigli?

“Non ci sentiamo più così spesso, anche se la stima e l’affetto con alcuni di loro, rimangono inalterati. Ma se dovessi darne uno, direi che in Sicilia serve attrezzare un centro liberale, riformista, popolare, che abbia la capacità di parlare a un mondo vasto che ancora oggi si guarda attorno senza sapere qual è la sua patria. Per fare questo serve un grande federatore. Lo spazio politico c’è nel Paese e nell’Isola, il rammarico è che non venga fuori una proposta capace di tenere banco. Insomma, mi pare proprio che manchi un Cavour e ciò sinceramente mi rattrista”.