All’inizio sembrava quasi un monologo comico: la macchina dietro la casa cantoniera “che si vedesse che non c’era”, le multe senza pietà a chi passava sopra i 50 “fossero pure i 50 di età”. Poi il giovane carabiniere, palesemente siciliano (l’accento usato da Faletti confermava l’inequivocabile “Minchia signor Tenente”) quasi senza cambiare tono racconta di una strage, di colleghi saltati in aria “che dopo quasi non resta niente” e grida sottovoce la sua rabbia.
Fu un pugno nello stomaco quel brano che era un recitativo non una canzone (le prime due strofe cantate all’inizio furono appiccicate dopo su richiesta di Pippo Baudo – che aveva capito il valore del pezzo – per ammetterlo al festival “della canzone italiana”). Fu l’irrompere nella mielosa placenta sanremese di un’arte impregnata di un pezzo di realtà distantissima dalle paillettes e dal sole-cuore-amore, inzuppata di una verità che, a raccontarla come fece Faletti, era di gran lunga più trasgressiva di tanti audaci sedicenti maledetti da salotto che periodicamente si pavoneggiano a Sanremo.
“Signor Tenente” (che però da subito e per sempre tutti chiameranno “Minchia signor Tenente”) nel 1994 arrivò seconda al Festival (vinse Aleandro Baldi con la “immortale” song “Passerà”, che infatti è passata subito e non la ricorda nessuno). Il Faletti scrittore di gialli da milioni di copie era di là venire. Il grande artista c’era già tutto, da tempo.
(tratto dal blog Strummerleaks di Toi Bianca)