E’ passato circa un anno (era il 12 marzo 2020) da quando l’Oms, Organizzazione mondiale della Sanità, ha sfatato il tabù dei tabù, dichiarando che il Covid non era la classica influenza stagionale, bensì la più grave pandemia dai tempi della spagnola. Oggi, un anno dopo, sono aumentati i morti e la consapevolezza, così come la paura di rimanerne imprigionati a lungo. Ma anche le criticità che in tutti gli ambiti – dalla scuola al trasporto pubblico alla campagna vaccinale – ci obbligano a guardare ai prossimi mesi con rinnovata preoccupazione, e con l’anelito di chi non riesce più a godere delle libertà più spicciole. Un segnale, però, è arrivato da Mario Draghi, fresco presidente del Consiglio: prima il cambio ai vertici della Protezione Civile, con l’addio di Borrelli e l’ingresso di Fabrizio Curcio; poi la manovra più attesa, col “licenziamento” del supercommissario Arcuri e la nomina di un generale dell’Esercito. Una decisione che oltre a far fuori uno dei principali responsabili della stagnazione – specie sui vaccini – tolgono agli altri attori della crisi, in primis le Regioni, ogni alibi. Bisogna marciare nella stessa direzione, senza piagnistei, per vincere la battaglia.
Gli ultimi dati sono terrificanti e, superficialmente, suggeriscono una lettura che potrebbe spazzare via le altre: nella settimana appena conclusa, il virus ha ripreso a galoppare e i contagi sono aumentati del 33% a livello nazionale. Colpa delle varianti – in Sicilia è arrivata quella sudafricana dopo quella inglese: un caso a Mazara del Vallo – che hanno un elevato grado di contagiosità, anche nelle fasce più giovani. Nell’Isola, che pure fino all’altro ieri esultava per la normalizzazione dei numeri (con una diminuzione di casi, focolai e ricoveri) la curva è tornata a crescere nelle ultime ore. Dal 22 al 28 febbraio, infatti, è salito del 9,9% il dato dei nuovi positivi (sono 3.568): è questo il detonatore delle nuove restrizioni, che rischiano di gravare su un sistema economico già sfibrato da mesi di approssimazione. E potrebbero mandare all’aria il tessuto sociale, a partire dalla scuola.
A Enna il sindaco Dipietro ha deciso di chiudere scuole e università per le prossime due settimane. E mentre i numeri dell’ISS ci farebbero lecitamente sperare nel raggiungimento della zona bianca (68 casi su centomila abitanti e indice Rt a 0,71), la realtà ci viene sbattuta in faccia ogni giorno dalla decisione di presidi e sindaci di richiudere le classi poco per volta. Ieri sarebbe dovuta cominciare l’ultima fase del piano dell’assessore Lagalla, per riportare a scuola il 75% degli studenti delle superiori. Ma visto che il virus ha preso a circolare anche nelle comunità scolastiche e fra i ragazzi, quasi nessuno si è assunto la responsabilità di allargare i cordoni della borsa. Colpa – anche – di un piano dei trasporti che non decolla e che, secondo l’assessore regionale alle Infrastrutture, Marco Falcone, dovrebbe modellarsi sulle riaperture (potenziali) dei vari istituti. Ossia: prima vediamo chi riapre, poi attrezziamo i trasporti. Peccato che i presidi ribaltino la prospettiva: prima dateci i bus, poi decidiamo chi mandare a scuola. Una situazione stagnante, e un filino stravagante: rinviare di una settimana o due – considerato che la curva è in risalita – non farà che incrementare i dubbi.
La conclusione, inevitabile, è contenuta del nuovo Dpcm che si appresta a varare il governo nazionale: in zona rossa, tutte le scuole di ogni ordine e grado rimarranno chiuse. Perché l’istruzione è importante, ma viene prima la salute. In base alle ultime rilevazioni della cabina di regia, e alle decisioni assunte dai governatori (come De Luca, in Campania), si calcola che da ieri circa tre milioni di studenti cono a casa, con la didattica a distanza. Ma che quasi un terzo di questi – circa 800 mila alunni – appartengano alla scuola dell’infanzia o primaria. Un milione e ottocento mila alle superiori. Molti sindaci, con decisioni assunte all’ultimo momento, si sono inventati un inizio di settimana all’insegna delle sanificazioni per garantire ai ragazzi un ritorno in classe prudente. Ma è fuori dalle quattro mura (spesso cadenti) delle scuole, che non si riesce a intravedere un modello organizzativo all’altezza. Gli assembramenti di fronte agli istituti, su cui nessuno – al netto pochi di pochi volontari – vigila; l’incremento del numero delle corse per i pendolari; l’aerazione degli autobus sgangherati del trasporto pubblico; l’inefficacia della didattica ibrida, specie nei quartieri più difficili. Tutto questo concorre a creare un enorme deficit nei ragazzi del domani. E allo stesso tempo, non contribuisce a lasciarci questo periodo infame alle spalle. Rallenta tutto.
Sempre all’interno delle scuole, specie negli ultimi giorni, monta la disparità di trattamento fra docenti. A Catania, in attesa che il Miur fornisse gli elenchi ufficiali degli insegnanti statali da “abilitare” alla prenotazione del vaccino, il commissario per l’emergenza Pino Liberti ha spedito le equipe negli istituti paritari per provvedere all’immunizzazione dei colleghi. Apriti cielo. Nei giorni precedenti era avvenuto il contrario. Soltanto da ieri la situazione è stata riequilibrata: tutti i professori e il personale scolastico di istituti pubblici e privati, ma anche degli enti di formazione, e comunque con un’età pari o inferiore a 65 anni, potrà finalmente fissare un appuntamento nel centro più vicino. Gli verrà somministrato il vaccino di AstraZeneca, non ancora indicato per le fasce di popolazione più matura. Tanto che alcune migliaia di docenti che hanno più di 65 anni rimarranno a guardare. Qualcosa, forse, andrebbe rivisto nel target: sono già in campo gli avvocati, mentre restano fuori disabili (il M5s ne ha quantificati 11 mila di “gravissimi”) e cargiver, che pure l’avvocato-assessore Razza aveva indicato come prossima fascia di riferimento. Spinto da più parti, l’assessore ha dato mandato alle Asp di contattarli: saranno vaccinati nei prossimi giorni, in contemporanea agli over-80 (e non dopo).
La campagna di vaccinazione è l’unico elemento di speranza: per la salute, per il lavoro, per l’economia. E dovrebbe diventare principale strumento su cui far leva per riappropriarsi della normalità. “Whatever it takes”, ad ogni costo. Mario Draghi, che pure si è insediato da poco, per il momento ha inciso poco: da un lato, a causa della resistenza dell’Unione Europea sulla modifica dei contratti con i fornitori (già sottoscritti) e sulla possibilità di accaparrarsi le dosi in maniera autonoma. Più che limitarsi ad aspettare, però, ha già mobilitato Esercito e Protezione Civile per intervenire laddove le Regioni fanno emergere la loro debolezza. Ad esempio nell’allestimento dei centri vaccinali. Mentre sul personale, l’assessore siciliano alla Salute, Ruggero Razza, per il momento non dispera: “Quello in campo è sufficiente rispetto al numero delle dosi – ha spiegato – e c’è l’impegno a livello nazionale a potenziare le reti dei vaccini ricorrendo anche alle agenzie interinali”. Poche ore prima, il commissario per l’emergenza di Palermo, Renato Costa, aveva segnalato una presenza di gran lunga inferiore al fabbisogno dei centri vaccinali già istituiti (una settantina in tutta l’Isola). Ieri, primo giorno di somministrazione a domicilio per gli anziani, qualche carenza d’organico s’è vista.
Musumeci, da par suo, chiede di esportare nel resto d’Italia il modello organizzativo della Regione. Al netto degli assembramenti (evitabili) e delle passerelle (televisive) per inaugurare questa nuova fase di speranza – prima alla Fiera del Mediterraneo di Palermo, poi all’ex Mercato ortofrutticolo di San Giovanni La Rena, a Catania – sembra che la vaccinazione stia cominciando a ingranare. In Fiera, dove si potrebbero vaccinare fino a 9 mila persone al giorno, ieri sono state iniettate duemila dosi. Intanto, complessivamente, sono oltre 350 mila le dosi inoculate in Sicilia dall’avvio della campagna. Solo ieri ne sono state somministrate poco meno di 13 mila. Ma restiamo al di sotto del mezzo milione, cioè il 10% della popolazione complessiva. E allora potrebbe essere davvero una questione di… fiale. Moderna non mantiene le promesse, AstraZeneca ne garantisce la metà, Pfizer è forse l’azienda più seria. Così tutti ci si interroga se esiste, o meno, un’alternativa.
Draghi, che vorrebbe arrivare a 5-600.000 vaccini al giorno punta forte sulla monodose. Ma bisogna attendere il nuovo carico di Johnson&Johnson, che qualche giorno fa è stato autorizzato dalle autorità americane, e l’11 marzo passerà al vaglio dell’Ema, l’agenzia europea del farmaco. Poi, secondo l’iter più ottimistico, verrà approvato dall’Aifa entro metà mese, per essere distribuito all’alba di aprile. E’ un vaccino che viene somministrato in un’unica dose – senza richiami – e che in 28 giorni potrebbe garantire un’efficacia dell’82%. L’Italia ne ha prenotato una grossa quantità di dosi da qui a fine anno (26,6 milioni di dosi) e questo step potrebbe davvero rappresentare la svolta.
Il resto, invece, va affinato, come dimostra il licenziamento del commissario Arcuri da parte del premier Draghi e come suggeriscono le parole di Davide Faraone, presidente dei senatori di Italia Viva e primo sostenitore del neonato governo: “Più passa il tempo e più si comprende che l’Italia non aveva un serio piano vaccini. Certo, l’Europa è in ritardo, poteva fare di più, ma ciò non toglie che noi, in attesa che arrivino (urgentemente direi) nuove dosi, teniamo ancora “custodite gelosamente” nei freezer un milione e seicentomila dosi – ha spiegato il renziano -. Abbiamo perso tempo a discutere se gli spazi per le vaccinazioni dovessero essere a forma di primula, rosa o margherita e abbiamo dimenticato di convertire le nostre aziende che producono vaccini antinfluenzali in aziende di produzione di vaccini anti Covid. Abbiamo dimenticato di attrezzare le strutture esistenti pensando a come sperperare risorse per realizzarne di nuove. Abbiamo dimenticato di organizzare esercito e protezione civile, medici di base e farmacisti. Eppure, per mesi, qualcuno inascoltato gridava di non aspettare a braccia conserte l’arrivo dei vaccini, unici veri antidoti al covid ed unica nostra garanzia per una ripartenza, ma di organizzare una efficiente rete di distribuzione e somministrazione”.
Una parte importante del ragionamento riguarda i medici di famiglia, che proprio per la campagna di massa vera e propria – con J&J, ma anche con AstraZeneca che è più facile da conservare – darebbero un contributo determinante in termini di celerità. Domani alla Regione è in programma un incontro per capire come coinvolgerli. Se mandarli a casa dei pazienti fragili o con problemi di deambulazione, per garantire il vaccino a domicilio; o consentire loro di somministrarlo all’interno del proprio studio. In parallelo bisognerà trovare una ratio alle misure restrittive adottate a livello nazionale, ma anche regionale, per evitare di far morire la gente col virus, e i lavoratori di fame. Per permettere agli studenti di riappropriarsi del ruolo che la società, da sempre, gli ha cucito addosso: quello di guida del cambiamento. Per ridare alla politica – compresa quella siciliana – la dignità che a tratti ha smarrito durante questi mesi di pandemia e delirio. Riporre nella federa i fucili di cartone, ripensare delle misure economiche all’avanguardia (Finanziaria, riforme e Recovery), capaci di contrastare la crisi che verrà non appena sarà cessato il fuoco del nemico invisibile, è il primo passo verso la vita che ci apparteneva prima.