Una direzione artistica di un teatro, dicevano i malpensanti una volta, non si nega a nessuno. Oggi non si nega neanche un licenziamento in tronco, bello e buono, privo di apparenti motivazioni e con tanto di ben servito dalla politica rispetto a chi svolge – nel bene e nel male – il proprio mestiere. E’ il caso del maestro Oscar Pizzo – un nome ed un ossimoro nella Palermo di oggi – scivolato all’uscita con largo anticipo sulla fine del suo contratto e, ma questo ancora è da appurare, senza apparente giusta causa.
E i proclami di un tempo, il rilancio del Teatro Massimo di Palermo, le dichiarazioni del Sovrintendissimo Francesco Giambrone che alla nomina di Pizzo, fatta da lui medesimo, affermava “Rimettiamo le cose a posto!”, che fine fanno? Conta il buono che un Direttore in quattro anni ha fatto o contano le divergenze di vedute con la linea politica dell’Ente?
Sembrava che Oscar Pizzo avesse tutte le carte in regola per occupare l’ambitissimo posto di direzione del più importante Teatro Lirico-Sinfonico della Sicilia. Ma queste carte col tempo, alquanto poco in verità, si sono ingiallite, corrose, logorate. Il merito della nomina, a un anno dalla fine dl suo mandato, era, per il Sovrintendissimo e per il patron della Città – Leoluca Orlando – sonoramente consumato. Perciò via: la dichiarazione unilaterale – “Il maestro Oscar Pizzo non è più direttore artistico della Fondazione Teatro Massimo”. E buonanotte al merito.
Perché il punto è proprio qui: un direttore è scelto all’interno di un Ente, sia esso lirico o di prosa, per di più finanziato con soldi pubblici, sulla base di una competenza e un curriculum, o la scelta è sempre più ormai discrezionale, politica, se non addirittura familistica?
Prendiamo i teatri di prosa, non quelli privati che vivaddio hanno tutto il diritto di nominare chi vogliono dato che rischiano in proprio con i loro soldi sulle sorti del teatro. Prendiamo i teatri finanziati con soldi pubblici: la norma vorrebbe che si agisse sempre e comunque sulla base di un’evidenza pubblica, sui meriti dei titoli acquisiti dagli artisti chiamati a dirigere il teatro e sulla base di una competizione corretta, onesta, trasparente. Prendiamo, per puro esempio, un teatro come il Pirandello di Agrigento, o quello di Enna, il Garibaldi o il Colonna di Vittoria. Piccoli teatri, è vero, ma tutti interamente sovvenzionati dalle amministrazioni comunali. Quali sono stati i criteri che hanno portato alla nomina di un attore – sia pur bravo come Lo Monaco ad Agrigento – e due musicisti, come Nobile e Incudine, negli altri due? Un bando? Una selezione pubblica sulla base di un programma? Una chiamata per chiara fama? Niente di tutto questo. Solo politica, e, passateci il termine musiche e tarantelle.
Nulla da dire che si possa recitar bene, fare dell’ottima musica e menestrellare alla corte di questo o quel politico con maestria e talento da saltimbanchi, ma con una strategia progettuale di un teatro cosa c’entra? E’ forse segno di una forte direzione artistica assemblare cartelloni con le compagnie di giro, musicali o di prosa, che orbitano indistintamente in tutti i teatri di programmazione e il cui merito va alle Agenzie che le rappresentano?
Sarebbe più corretto, per la pubblica amministrazione che sostiene questi teatri, affidare la direzione artistica direttamente alle potenti agenzie di spettacoli. Certo la legittima obiezione – peraltro del tutto condivisibile – sarebbe che così facendo si metterebbe in atto una palese formula conflittuale tra l’interesse di piazzare i propri spettacoli e la necessità di fare un buon cartellone. E poi mancherebbe la testa pensante – ovvero il Direttore di turno – che dovrebbe cucire un cartellone adatto al territorio su cui il teatro opera. Ecco, appunto, una testa pensante – che sbagli persino, che non sia necessariamente in linea con il committente politico, ma che lo sia con quello reale: il pubblico. Che osi portare in un teatro finanziato dalla pubblica amministrazione un messaggio, una visione, un progetto per e sul territorio. Una testa che abbia un pedigrì comprovato, non di titoli a caso, raccattati tra una serenata e l’altra, ma fatti di una poetica artistica – condivisibile o meno, poco importa, ma tuttavia chiara, onesta precisa.
Un esempio per tutti: Giorgio Pressburger, regista ormai scomparso non conosciuto dal grande pubblico, ma di indiscutibile valore, che ha fatto del Mittelfest un progetto radicato nel tempo. Le sue scelte sono state condivise da tutti? Certo che no. Ma il suo merito rimane un valore per la storia del teatro italiano del Novecento.