Stiamo qui a baloccarci con la tracotante risolutezza dello Sparigliacarte toscano, con i paterni decisionismi del Colle o con l’Uomo della Provvidenza Monetaria nel mare della deriva politica, del rabberciamento delle intese e della morìa pandemica, quando tutto potrebbe dibattersi e trovare assoluzione o condanna in uno studio televisivo. In un’Italia repubblica democratica fondata non sul lavoro (che non c’è) ma sul «ciao, Barbara», formula magica che quasi tutto risolve o promette di risolvere. O sul «chiudi la busta, Maria» ché se il patron di Italia Viva fosse andato a «C’è posta» avremmo risparmiato 48 ore di tergiversamenti e in mezzora il prode Fico dal piglio ulisside sarebbe ritornato a mani vuote tra i corazzieri.
Perché le due signore in esempio, D’Urso e De Filippi – le più visibili, le più potenti, le più ascoltate – surrogano una stampa svogliata e una giustizia sonnolenta, una diplomazia domestica e uno spirito pratico familiare oramai perduti, si fanno altoparlante dello scandalo, tribunale del senso comune. E la Sicilia ridiventa la vecchia, nuova frontiera, ritorna ad essere un Far West teatro del tragico e del grottesco, il grido di dolore che si leva dai teatri di pietra o il chiacchiericcio dei tavolini del caffè in piazza, un’isola reale 2.0, percepita Sofocle o Zampa-Germi.
Un racconto sempre abborracciato, ovviamente, alla cacio e pepe, con «uuuh» e «oooh» di riprovazione e approvazione dell’inclito pubblico oggi scritturato e pagato (perché talvolta ancora c’è, il pubblico, inscatolato nel plexiglass per le restrizioni del Covid) o nel vuoto dello studio con le tribunette deserte, ospiti fumantini o disperati in collegamento, a seconda delle storie, più personaggi che persone. Sono quasi sempre verità all’ammasso, non è più cronaca da un lato né vizi privati e pubbliche virtù dall’atro.
Dalla D’Urso ormai non è più nemmeno tv del dolore (Vermicino, additano alcuni, fu l’inizio). È il pathos che sopravanza la storia. Così, nel raccontare dalla Sicilia la tragedia immane di una donna che muore per uno sciagurato imprevisto dopo il parto, quello che conta non è il riordinare una, dieci, cento verità, ma il contesto, la scenografia, il coro greco che non rispetta metriche né corso degli eventi, l’album delle foto aperto sopra il tavolino del salotto, Barbarella che raccomanda ai suoi corrispondenti che tentano una interlocuzione qualsiasi “lascia parlare loro” relegando quei giornalisti al ruolo di reggimicrofono perché alla fine è su lei che deve andare, nella “tendina” Milano-Palermo, il primo piano, sui suoi occhi sgranati dall’incredulità, sulle lunghe mani smaltate che si giungono come a implorare Dio e ogni tanto, ancora giunte, fanno un lieve, compulsivo, altalenante avanti e indrè, come a chiedere, a quel Dio, come mai tutto ciò sia potuto accadere, come la potenza avversa del destino abbia prevalso – nel 2021! – sull’impotenza dell’uomo.
L’apoteosi è quando la ricerca della verità si sposta per strada, in “esterna”, laddove il popolo racconta, commenta, giudica. Una massa che cerca ansiosamente non più il quarto d’ora ma i 15 fuggevoli secondi di notorietà perché si sa che più di quelli non si può ché «adesso devo mandare in onda la pubblicità», e già assurgere solo per un risicato minuto al ruolo di figurante, comparsa è già un successo garantito per almeno una settimana sul marciapiedi sotto casa. Raccontano che l’anno scorso, per una brutta storia di nera a Marsala, un uomo si sbracciava per far capire all’inviata di Barbara di conoscere, sapere, sospettare, forse addirittura aver visto. Raccattato nella ragnatela satellitare e dopo aver riscosso il suo momento di popolarità, si stupì parecchio e quasi recalcitrò di fronte all’attenzione che, all’epilogo del siparietto mediatico, gli rivolsero i carabinieri caricandolo sulla loro macchina per portarlo in caserma. Non si sa se lì confermò quello che aveva appena detto al microfono o lasciò mestamente sgonfiare la sua piccola mitomania: intanto aveva lasciato la sua, di verità, davanti alle telecamere di «Pomeriggio Cinque».
Anche dalla De Filippi si gioca lo stesso gioco. Meno drammatico, chiaramente, con minor pathos, lì il massimo del conflitto sono il traumatico disconoscimento madre-figlia, la lite suocera-nuora, le classiche corna che stanno su tutto, l’agnizione delle due orfanelle dislocate in un tempo lontano in due lontani orfanotrofi. Però la tecnica è la stessa: una narrazione a singulto, la verità un tanto al chilo, un bignami tossico di sentimenti, un riassunto raffazzonato di vita vissuta, il lubrico spiato dal buco della serratura, ammiccante a «Cronaca vera». E lo scenario è di brutta cartapesta, di quella che nemmeno i fondali al teatrino dell’oratorio: una Sicilia da depliant della pro loco, da brochure dell’azienda di turismo, piazze illuminate a led ma percepite barocche e assolate, snapback come coppole, shorts come scialli. Come se da un momento all’altro, dopo tanto faticoso moraleggiare per una riconciliazione che sembrava impossibile, irrompesse in studio Saro Urzì a ridicolizzare quella famiglia sì ma «una famiglia di grandissime buttanone!».