No, non ci saranno i tratti di corda, i giri di quella ruota maledetta alla quale veniva legato l’eretico che si ostinava a difendere le sue tesi e a non confessare l’impostura. Ma l’onorevole Giorgia Meloni, a nome dei Fratelli d’Italia, insiste per eliminare dal codice il reato di tortura e lo fa al semplice scopo di dare ai poliziotti ampia facoltà di trattare – va da sé, nel migliore dei modi – il delinquente finito nelle loro mani e che testardamente si ostina a non fare il nome dei complici o del mandante.
No, non vedremo la stola viola appesa ai due bracci della croce. E nessun frate urlerà in chiesa quel motto che impietriva: “Exurge Domine et judica causam tuam”. Ma sarà difficile dimenticare l’ultimatum lanciato da Matteo Salvini, ministro dell’Interno, ai disperati che aspettavano di attraccare al porto di Trapani e che forse avevano tentato una debole e forsennata rivolta: “Devono scendere in manette”. E che cosa ricordano le manette – le manette ad ogni costo – se non i polsi legati dietro la schiena nelle segrete dei santissimi tribunali dell’Inquisizione?
No, non torneremo negli anni tetri dei roghi e dell’autodafé. Non rivivremo le cupezze della doppia giustizia e non incroceremo nessuna via che porti al patibolo. Non ricompariranno i misericordiosi confratelli dell’Oratorio dei Bianchi per confortare i condannati a morte. E non ci sarà neppure un monaco ribelle, come Diego La Matina, che ucciderà durante l’interrogatorio il reverendissimo Juan Luis de Cisneros, inviato dalla Santissima Madre Chiesa in Sicilia per flagellarlo e ristabilire così l’ordine e la verità, “veritas Christi et Ecclesiae Sanctae”. Non ci sarà nulla di tutto questo. Non ci sarà una nuova inquisizione. Ma la vocazione inquisitoria c’è, eccome. La cogli lì, dove serpeggia la voglia di giustizia sostanziale e si pretende di incastrare gli impresentabili corrotti con ogni mezzo, anche senza prove. La annusi lì, dove i giuriconsulti di ultima generazione traccheggiano per eliminare la prescrizione e avere così la possibilità di tenere l’imputato appeso per la gola a un processo senza fine. Dispiace ammetterlo, ma uno sgradevole “fumus inquisitionis” si fa strada persino in Cassazione, nel palazzo che dovrebbe racchiudere come un tabernacolo la sacralità dello stato di diritto, e tra i giudici che dovrebbero essere severi e incrollabili custodi delle regole: perché in materia di giustizia, lo sanno pure le pietre, la forma è sostanza e ogni eccesso di giustizia non sarebbe altro che malagiustizia. Ricorderete l’esito del voto, due settimane fa, per l’elezione dei membri togati che andranno a comporre il nuovo Consiglio superiore della magistratura. E ricorderete in particolare il successo inatteso e sbalorditivo – 2.522 voti – ottenuto da Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite, proprio tra i suoi colleghi della Cassazione.
L’en plein di Davigo, un puro e duro che da anni predica come un chierico vagante la necessità di inasprire metodi e pene per chiunque metta a sproposito le mani sul denaro pubblico, non è privo di significato: sta a dimostrare che tra gli ermellini della Suprema corte si è ingrottata l’idea che la giustizia stia vivendo un momento di pericoloso lassismo; una mollacchia deriva garantista per fronteggiare la quale è urgente e necessario l’avvio di una stretta legislativa, se non addirittura di una controriforma.
Il metodo della controriforma, del resto, sembra affascinare il cosiddetto governo del cambiamento. E non è certamente un caso che il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, grillino di scuola fiorentina, abbia voluto inaugurare la sua azione salvifica in via Arenula con la cancellazione del decreto, varato dal predecessore, che poneva fragili e timidi limiti all’uso e all’abuso delle intercettazioni telefoniche. Bonafede ha detto no a quello che i suoi compagni di partito e di cordata hanno sempre chiamato “bavaglio”. Si potrà dunque tornare allegramente alle intercettazioni senza freno, anche a quelle “a strascico”, che inquirenti e investigatori potranno poi consegnare a questo o a quel giornale senza riserbo, senza pudore. Per un movimento come quello a cui appartiene il ministro della Giustizia lo slogan dell’onestà-tà-tà va quasi sempre di pari passo con la libertà di sputtanamento, soprattutto degli avversari.
E non si obietti, per carità, che Bonafede è un caso isolato o, peggio, un caso limite. Perché attorno al ministro della Controriforma – sia detto senza allusione al nero riberesco che segnò la cultura di quel tempo, fino all’universale tragedia dell’Inquisizione – c’è una fitta corte di reverendissimi padri del diritto, dal capo di gabinetto ai capi dei più importanti dipartimenti, che hanno risposto alla sua chiamata e che sono lì, ai vertici del ministero, per dare attuazione alle idee e ai convincimenti del nuovo Guardasigilli.
Tutto si poteva sospettare, prima che i gialloverdi scalassero i cieli del potere, ma non che dentro i palazzi di giustizia ci fosse una così ampia moltitudine di giudici straordinariamente attratti da questa indistinta vocazione inquisitoria. Eppure i numeri – i numeri della Cassazione, i numeri dei magistrati che affiancano Bonafede – stanno lì a confermare tendenze e schieramenti.
C’è da preoccuparsi? Non esageriamo. Ma accanto ai numeri si manifestano, nella confusione dei nostri tempi, altri segni pesanti; i quali rimandano, inesorabili, al nerofumo che avvolge e incrudelisce i quadri di Jusepe de Ribera e del suo tormentato Seicento. Uno di questi segni è l’insistenza con la quale le punte più estreme del giustizialismo gialloverde e dell’antimafia chiodata invocano la costituzione di commissioni parlamentari di inchiesta per cercare in sede politica, sotto la protezione di San Macuto, quelle verità su depistaggi e trame oscure che i tribunali e le corti d’assise non sono riusciti a disvelare. E’ la voglia di una doppia giustizia: da un lato quella ordinaria, con i suoi riti e le sue forme; dall’altro lato quella dell’”exurge Domine et judica causam tuam”, dove non troveranno mai spazio né le regole né i codici perché tutto sarà affidato alle audizioni, al dibattito, al sospetto, all’arbitrio, all’interesse di parte e di partito, alla libertà di insultare e sbugiardare, di stilare condanne e assoluzioni, di scrivere relazioni di maggioranza e relazioni di minoranza, di squartare le verità e dividerle un tanto al chilo, per premiare i puri e mandare gli impuri al patibolo della gogna e della vergogna. Come nella santissima Inquisizione, quella dei secoli bui, fatta di fede e delirio.
Exurge Domine, verrebbe da ripetere; rialzati, o Signore, e allontana da noi ogni attentato e ogni sfregio allo stato di diritto. “Appena si dà di tocco all’Inquisizione – annotava Leonardo Sciascia nel 1994, subito dopo avere raccontato in un libriccino indimenticabile il dramma di fra’ Diego La Matina e del suo persecutore Juan Luis de Cisneros – molti galantuomini si sentono chiamare per nome, cognome e numero di tessera del partito cui sono iscritti”. Non succederà. Ma greve è il nostro tempo, assai greve.