Dire che non funziona quasi nulla non è voler spargere paura. Bensì essere realisti. Lo confermano i morti, i ricoveri, la corsa inafferrabile del virus anche in Sicilia. E’ giusto compiacersi quando la curva cala, e non perdere mai la speranza. Ma sarebbe un errore non soffermarsi sui solchi scavati dal “nemico invisibile”, che ogni giorno rende inattuali le prospettive di ritorno alla normalità. Ci vorrà del tempo. Il professor Walter Ricciardi, rappresentante italiano presso l’Oms (l’organizzazione mondiale della sanità), ha chiarito meglio il concetto: “Se fossimo nel corso della seconda guerra mondiale – ha scritto di suo pugno su Avvenire – non saremmo nel 1945, quando già si poteva guardare alla Ricostruzione, ma nel 1941, in pieno conflitto, che potremo vincere solo se baseremo le decisioni sull’evidenza scientifica e su un’organizzazione consapevole, disciplinata ed efficiente”. Vediamo a che punto siamo.
Prima questione: l’evidenza scientifica. Quella che non sembrano possedere i tamponi di prima e seconda generazione, con cui la Regione infarcisce ogni giorno decine di screening, tutte in modalità drive-in, sul territorio siciliano. Questa campagna di massa, arrivata da un paio di mesi, è stata un deterrente alla circolazione del virus: nel senso che molta gente, visti i tempi (ridotti) e i costi (azzerati), ha scelto di controllarsi. Oggi, però, non basta. Questa profilassi debilita, in un certo senso, l’attività del tracciamento. Lascia per strada casi sospetti e falsi negativi. Ha un’attendibilità molto bassa quando si applica a comunità sovradimensionate – come avviene, appunto, negli screening – dal momento che il test dovrebbe essere ripetuto a distanza di tre giorni. E’ stato una “barriera” di contenimento del contagio, come l’ha definita il commissario per l’emergenza di Palermo, Renato Costa. Ma bisogna andare oltre. Ricorrere ai test rapidi di ultima generazione, che hanno un’attendibilità vicinissima a quella dei tamponi molecolari, o rafforzare la microbiologia: che vuol dire dotarsi dei macchinari – i cosiddetti estrattori – che permettano di diagnosticare i tamponi in mezz’ora, piuttosto che in due giorni.
Lo dicono gli scienziati. Il professore Giarratano, docente di Anestesia e Rianimazione all’università di Palermo, nonché membro del Cts, fa una disamina talmente chiara che è impossibile non darvi ascolto: “I tamponi rapidi antigenici, specialmente quelli di ultima generazione che sono più sensibili, cioè fanno meno “falsi negativi”, vanno bene per lo screening di comunità specifiche che, nel caso degli antigenici attuati ad oggi, andrebbe ripetuto in tempi brevi. La Regione, all’inizio, ha investito sui tamponi rapidi, perché c’era una situazione d’emergenza, ora è necessario, a parere mio e di alcuni componenti del Comitato Tecnico Scientifico, incentivare la microbiologia molecolare e investire di più, sempre con quelle caratteristiche, sui tamponi rapidi di ultima generazione, evitando di confondere i piani di utilizzo con progetti di sperimentazione (i test salivari, ndr) che tali non possono essere definiti”. In questo modo potrà risollevarsi il tracciamento. Inoltre, bisognerebbe mettere a disposizione dei siciliani un numero più elevato di vaccinatori – siamo sempre in attesa che si sblocchi il bando nazionale da cui la Sicilia dovrebbe attingere 1300 unità, fra medici e infermieri – e rafforzare le Usca, cioè le unità specialistiche di continuità assistenziale, che si occupano di risalire alla catena dei contagi. Si recano al domicilio dei “positivi”, effettuano il tampone, decretano l’uscita dalla quarantena. Dovrebbero velocizzare, non rallentare.
Qualcuno, però, rimane ostaggio dei propri rifiuti, come rileva in una nota Giuseppe Badagliacca del Csa-Cisal: “Uno degli effetti collaterali della pandemia è rappresentato dai rifiuti speciali da Covid-19 e soprattutto dal servizio di raccolta che finora, con pessimi risultati, è stato assegnato alle Asp – spiega -. E’ sotto gli occhi di tutti che il sistema non funziona, migliaia di siciliani in quarantena sono stati costretti a tenere a casa la propria immondizia anche per tre settimane inondando di richieste d’aiuto gli enti locali. Un vero e proprio cortocircuito istituzionale, visto che a volte le Asp non hanno nemmeno informato i Comuni dell’impossibilità di assicurare il servizio o non hanno trasmesso l’elenco di chi era in quarantena. Chiediamo un incontro al Governo perché inserisca gli operatori tra le priorità del piano vaccinale”.
Restiamo in ambito sanitario. Un’altra cosa che non funziona affatto è l’attenzione riservata alle cure extra Covid. Non all’interno degli ospedali, dove il personale svolge il proprio ruolo nella massima professionalità. Bensì fuori, dove si fatica nei processi organizzativi e logistici. E, sebbene l’intento sia quello di garantire tutti i servizi ed evitare il “lockdown sanitario”, si finisce per chiudere un reparto fondamentale come quello di Ginecologia e Ostetricia al “Cervello” di Palermo, o come Cardiochirurgia (dove è esploso un focolaio nei giorni scorsi) al Policlinico, si sospendono i ricoveri Cardiologia e Medicina d’Urgenza al “Civico”, si decentrano i servizi essenziali nei Pronto soccorso. E ciò nonostante esista un vecchio piano, aggiornato al 30 novembre, in cui il Covid avrebbe beneficiato di 416 posti letto di Terapia intensiva e di 3.000 di area medica. Tutto messo nero su bianco. Eppure è necessario spostare, riconvertire, chiudere, archiviare. Anche se i parametri (ma solo quelli) al momento ci danno ragione: siamo sotto la soglia di saturazione degli ospedali.
Ma il rischio è un altro: ad esempio che non si possa garantire l’attivazione dei posti di Rianimazione promessi, a causa della carenza di personale. La storia degli anestesisti è vecchia come il virus. Ma ieri, a Palermo, è stata sollevata un’altra questione: la carenza di infermieri. Il presidente dell’Ordine, Nino Amato, ha lanciato l’allarme: “Per effetto dei pensionamenti con quota 100 e a causa del numero esiguo di laureati in Infermieristica, la disponibilità di questo personale è oggi estremamente esigua, come testimoniano i dati provinciali. Oggi più che mai, in piena emergenza pandemica, va affrontato il tema del sostegno a una professione la cui indispensabilità è di palese evidenza”. Per Amato, da un lato vanno ampliati i posti all’interno dei corsi di laurea e dall’altro vanno garantite migliori condizioni professionali. “Torniamo a chiedere un incontro all’assessore Ruggero Razza – commenta il presidente dell’Ordine degli Infermieri – convinti come siamo che possiamo dare il nostro autorevole contributo nella gestione di una fase complessa come questa e ricordando quanto sia di vitale importanza il ruolo che gli infermieri stanno svolgendo”.
Il capitolo ospedali, inoltre, merita un checkup sullo stato dei lavori per l’apertura di nuovi reparti Covid dedicati. Roma ha stanziato 128 milioni per aprire cantieri in tutta la Sicilia (i progetti esecutivi sono 48), con la promessa di creare ulteriori 253 posti di terapia intensiva e 318 di terapia sub-intensiva, di cui 150 entro la fine di gennaio. Il rispetto dei tempi, fin qui, è un giallo. Pare, infatti, che lo Stato non abbia ancora anticipato una quota dei finanziamenti per l’avvio dei lavori, sebbene la struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri pretende che, prima di far partire i versamenti, la Regione abbia messo tutti i contratti nero su bianco. Così si genera il limbo: nessuno vuole anticipare i soldi e tutto resta fermo. Al “Cervello si sta lavorando per dotare l’ospedale di 32 postazioni, ma se ne parla il 6 maggio. “In un momento così delicato, con migliaia di nuovi casi ogni giorno in Sicilia – ha detto Marianna Caronia, deputata regionale di Forza Italia – l’intervento sull’edilizia sanitaria dedicata al Covid non è rinviabile e adesso siamo certi che l’anticipazione delle somme da parte del Commissario avverrà in pochi giorni. A fronte dei grandi sacrifici che la sanità siciliana e tutti gli operatori sanitari hanno fatto e stanno facendo, lo Stato deve supportare questo sforzo. Altrimenti sarebbe insopportabile che il governo nazionale da un lato ci impone scelte finanziarie urgenti e dall’altro non interviene con adeguata rapidità sul fronte del Covid”.
La sfera delle preoccupazioni sanitarie, ovviamente, comprende anche la campagna di vaccinazione. Che da qualche giorno a questa parte procede solo coi richiami: chi si era fatto inoculare la prima dose a cavallo del nuovo anno – si tratta per lo più di operatori sanitari e ospiti delle Rsa – sta ricevendo la seconda. Grazie alle scorte conservate in magazzino. Fosse per la Pfizer, si sarebbe fermato il mondo. La multinazionale americana, la prima che ha avuto accesso al mercato dalla fine di dicembre, ha ridotto notevolmente lo stock della Sicilia: -23%. Così si è passati dal vaccinare 7-8.000 persone al giorno ad appena mille. Secondo le motivazioni ufficiali, questo rallentamento sarebbe dovuto all’aumento della produzione nello stabilimento belga di Puurs e dal 25 gennaio le cose dovrebbero tornare a posto. Arcuri non ci sta e minaccia azioni legali, appoggiato dalle Regioni (per una volta).
A riportare tutti sulla terra, però, ci ha pensato Aldo Grasso, nel suo fondo sul Corriere: “Invece di attivare l’avvocatura di Stato per valutare eventuali responsabilità di Pfizer per i ritardi nella consegna dei vaccini, non sarebbe più opportuno che il presidente del Consiglio alzasse il telefono e chiamasse l’amministratore delegato dell’azienda? A Metà dicembre 2020 il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia, fiero del lavoro fatto dalle Regioni e dal commissario Arcuri, esultava: “La campagna vaccinale sarà una sfida che vinceremo insieme”. Insieme a chi? A chi spetta invano di farsi vaccinare? Alle siringhe sbagliate? Agli invisibili 1500 gazebo sovrastati da primule che avrebbero dovuto ospitare le vaccinazioni? Quando c’è di mezzo la salute – qui un riferimento diretto all’ultimo sport di Tornatore per invogliare gli italiani – la comunicazione si deve basare su fatti concreti, su certezze, su evidenze non su suggestioni, promesse o propositi infranti. E’ una corsa contro il tempo, non si può perdere tempo”.
La Regione non può fare altro che attendere: è vietato qualsiasi accordo bilaterale con altre case farmaceutiche – si era pensato di scandagliare i mercati russi e cinesi – se non c’è alla base il via libera da parte dell’Agenzia del Farmaco, che dal 29 dovrebbe sciogliere le riserve sul vaccino di Astrazeneca. L’Italia ne ha ordinato 40 milioni di dosi, otto milioni solo nella prima fase. Ma ci sono “piccole” controindicazioni. Intanto l’efficacia, al 70%; e poi la capacità di poter disarcionare le “varianti” come quella inglese. E, infine, la reperibilità: le consegne subiranno un taglio drastico del 60%.
Non è certo colpa della Sicilia se l’Unione Europea, e lo Stato italiano, si sono affidati al siero meno “affidabile”. Ma è responsabilità del governo regionale, e indirettamente delle Asp, se in queste prime settimane di somministrazione anche i vaccini siano diventati l’oggetto di uno scandalo. Da Scicli, nel Ragusano, a Petralia Soprana, anziché seguire scrupolosamente le indicazioni contenute nel piano nazionale – non è detto che si debbano condividere al cento per cento, ma rappresentano l’unico vademecum – ci si è affidati al “passaparola”. Uno strumento più agevole, se fossimo di fronte all’ultima fiera di paese. Ma assai pericoloso se si considera che non è ancora partita l’immunizzazione delle fasce più a rischio, come ad esempio gli ultraottantenni. Scalare la classifica senza averne alcun diritto, vuol dire esporre le categorie più deboli al rischio d’infezione, e a tutte le conseguenze che possono derivarne. E’ una condotta deprimente sotto il profilo etico, che magari non troverà alcuna rispondenza in termini di responsabilità penale. Ma che va, comunque, debellata sul nascere. Almeno finché non avranno inizio le vaccinazioni di massa.