Poi una mattina di luglio, con 40 gradi e il sole che picchia selvaggiamente, ti ritrovi a guidare una macchina che non è la tua, lungo strade che non sono le tue. La periferia più periferia, a due passi da quel centro storico tanto osannato. Se non ci fosse una persona a guidarmi, non saprei nemmeno dove sono, io che ho un discreto senso dell’orientamento e, da non palermitana, mi muovo agevolmente fra vie e piazze che anche i palermitani sconoscono.
L’asfalto brucia e forse anche per questo tutto sembra più brutto. Brutto, sì. Brutto e trascurato, lasciato a sé, senza nemmeno quel minimo di cura che ogni angolo di una città merita. Più mi addentro e più diventa squallido. Palazzoni tristi e anonimi, strade quasi deserte, larghe, enormi e la campagna incolta intorno. Rifiuti ovunque, cassonetti stracolmi e mobili, frigoriferi, televisori lasciati ai bordi del marciapiede. Non c’è un fiore, non c’è un albero.
Quando riesco a ritornare su una “strada normale”, pure via Ernesto Basile riesce a sembrarmi bella in confronto allo squallore del quartiere che mi sono appena lasciata alle spalle. E allora pensi che se cresci in un posto così, inevitabilmente ti adegui a tanta bruttezza, non riesci ad affrancarti dallo squallore, dalla tristezza, dal degrado. Ti incupisci, ti lasci andare. Oppure c’è un’altra strada: quella di innamorarsi della bellezza, e salvarsi.