A dettare i tempi della politica non è soltanto la pandemia. O la smania di sapere se a Natale potremo spostarci fra due comuni distanti una ventina di chilometri. C’è di più. Uno degli argomenti tornati tremendamente d’attualità, a Roma come a Palermo, è quello del rimpasto. L’assessore regionale all’Economia, Gaetano Armao, ha ammesso che il presidente Musumeci è sul punto di mettere nero su bianco le voci delle ultime settimane, “anche se è sbagliato parlare di rimpasto: è un termine che appartiene alla peggiore politica. Quando un partito decide di cambiare uno o due assessori, per dare maggiore rappresentatività ai territori, è più corretto parlare di turnover”. Tutto giustificato, insomma.
Anche se il giudizio cambia quando gli si fa notare che a Roma, più o meno, è in corso la medesima procedura. Ma che il governo, qualora non riesca a superare lo scoglio del “turnover”, rischia di cadere: “E’ deprimente che con un nuovo lockdown in vista – ha detto Armao – si discuta di poltrone o di cambi di casacca”. I giudizi, insomma, si spostano in base all’angolo d’osservazione e a quanto ci si trovi implicati. Ma la conclusione è (o sarà) la medesima: che la politica continua a fare la politica, indipendentemente dal virus. Se è il caso, rimettendo mano al manuale “Cencelli”.
Fatta questa premessa, va segnalato come i due governi partano da presupposti diversi: mentre quello centrale, ogni giorno, controlla il destino di milioni di persone ed è tenuto a decidere su qualcosa (poco importa che siano spostamenti o ristori), in Sicilia l’immobilismo si tocca con mano. Negli ultimi nove mesi l’Ars è riuscita ad approvare un paio di riforme in tutto: quella sull’Urbanistica, in parte impugnata dallo Stato, e quella sulla proroga delle concessioni demaniali. Poi ha allestito una Finanziaria di guerra, che è stata attuata solo in parte. Basti ricordare che la proposta di riprogrammazione di fondi strutturali per oltre 1,2 miliardi – la seconda di due delibere – è ancora oggetto di una “trattativa” con il Ministro per il Sud Peppe Provenzano, con il quale si sta cercando un accordo sui capitoli da rimpinguare (e in che modo).
Segno che qualcosa non funziona. Musumeci fin qui ha limitato i danni, dettando i movimenti ai suoi assessori (come fa un allenatore di calcio con gli attaccanti) e preservando il suo “figlioccio” politico Ruggero Razza, scampato a una mozione di censura. Ma gli è mancato il guizzo. E a chi usa la pandemia come un alibi, non sarà sfuggito che l’attività di questo governo è stata “parsimoniosa” sin dal primo giorno, giacché della rivoluzione annunciata si sono assaporate soltanto poche briciole. Che fine hanno fatto le riforme? E perché non si parla più di taglio agli sprechi? Quante carrozzoni inutili sono stati mandati in pensione? Basterebbero poche risposte per determinare lo stato di salute di un esecutivo dove troppi assessori si sono limitati al compitino. La pandemia ha costituito un ulteriore freno che, ribaltando la prospettiva, può essere concepito come l’automatica conservazione dello status quo. Se non è si è fatto niente prima, figurarsi ora…
Lo stesso ragionamento che, l’estate scorsa, Musumeci utilizzò (forse con un pizzico di pregiudizio) per demonizzare i dipendenti regionali, costretti a casa con lo smart working. E che adesso andrebbe applicato anche agli assessori: molti battono la fiacca e si sono rifugiati da tempo nel cono d’ombra del governatore, iscrivendosi al suo partito personale in cambio di uno scudo per la legislatura. Alla squadra del presidente della Regione, più che un ritocchino a motore (espressione annunciata due estati fa) servirebbe una revisione completa. Eppure anche per il ritocchino i mesi scorrono: il coordinatore regionale di Forza Italia, Gianfranco Micciché, ha chiesto il cambio di due pedine (Bandiera e Grasso) per legittimare le province assenti – dovrebbero entrare un trapanese e un agrigentino (in alternativa un nisseno) – ma Musumeci tentenna. Vuole evitare che l’assestamento diventi una slavina. Fra i nomi che si rincorrono, quelli di Toni Scilla, commissario provinciale di Forza Italia a Trapani, e Maria Antonietta Testone, coordinatrice di Azzurro Donna. La cui presenza garantirebbe il mantenimento della “quota rosa”. Dopo l’infatuazione iniziale, resta sullo sfondo Margherita La Rocca Ruvolo. Mentre è più difficile che l’intervento riguardi anche le deleghe.
Poi c’è la questione Roma, dove le voci si rincorrono e potrebbero portare al naufragio l’esperienza del Conte-due. Con ricadute inevitabili sul governo della Regione, che è tuttora impegnato per il riconoscimento dell’autonomia finanziaria della Sicilia, e sta conducendo una battaglia esiziale sulla rimodulazione dei fondi Ue. Tutto ciò subirebbe un rallentamento. Nel contesto di palazzo Chigi è più difficile valutare i pro e i contro di un’operazione così ardita. Le sofferenze di Renzi, le debolezze di Conte, l’inconcludenza dei Cinque Stelle, hanno determinato l’impasse. Ieri è saltato l’incontro fra il presidente del Consiglio e il leader di Italia Viva, a causa dell’assenza del ministro Teresa Bellanova, in qualità di capodelegazione dei renziani (“Perché non c’è nulla di personale in questa storia”, fa trapelare l’ex premier).
Un modo per tirare la corda, per capire sin dove è possibile spingersi. Se è possibile giustificare le carenze di un governo non-di-maggioranza, redistribuendo le carte da gioco. Anche se da parte dell’ex sindaco di Firenze – a Roma sono bravissimi a dissimulare – non c’è alcuna richiesta di scompaginare un’organizzazione già precaria: “Chi dice che noi facciamo confusione per avere mezza poltrona in più deve prendere atto che noi siamo l’unico partito che è pronto a rinunciare alle poltrone, non a chiederle”, ha detto Renzi. Aggiungendo che le sue ministre sono pronte a fare un passo indietro, se il presidente del Consiglio ignorasse la richiesta di accelerare (sul Recovery Fund e tanto altro): “Sui temi del ‘salto di qualità’ del governo diremo la nostra al premier con un documento scritto appena ci sarà occasione di incontrarci”, ha assicurato.
Renzi e Musumeci. Modi di pensare lontanissimi, universi che non si sfiorano (e a tratti si detestano). Riuniti dall’apoteosi del rimpasto, che tiene la politica col fiato sospeso. Anche se agli italiani e ai siciliani, di questi tempi, frega il giusto.