Paolo Rossi non era un fuoriclasse. Era semplicemente un calciatore straordinariamente furbo e opportunista. Era l’onirica dei nostri favolosi nascenti Anni Ottanta. Più di Michael Jackson, delle Timberland sulle calze a scacchi, del Ciao senza casco, del ciondolante Zab Macahan, delle cinture Avirex. Il paradigma del riscatto, l’eccellenza della normalità fisica e morale imperfetta ma vincente.

Siamo stati Paolo Rossi in tanti, l’anatroccolo che si fa cigno, nell’Italia brutta sporca e cattiva che un giorno decise di prendersi il mondo. Non era bella a vedersi, non lo era lui. Poi decisero di essere i più forti. E lo furono. E lui più di tutti.

Chi non ha tatuati nell’anima della sua generazionale passione calcistica quei mondialidellottantadue può a lungo menarla con il 2006 quanto vuole: gli mancherà l’essenza, lo spirito sacro, la costola. Perché noi del mondiale dell’insostenibile Lippi e di Caaaannnavaro! ricordiamo a stento risultati, partite e formazioni. Mentre di quell’estate incredibile ricordiamo ogni singolo giorno, ogni singola azione, ogni singola emozione, ogni singola maledizione all’iniziale fuffoso Paolo Rossi che poi diventò d’un tratto l’immenso Paolorossi mundial. Ricordo perfino come ero vestito la sera di quell’11 luglio: camicia azzurra, azzurra come i miei pantaloncini da tennis Ellesse sopra gli zoccoli taroccati Dr Sholl’s. Tredicenne impresentabile e sognatore. Non sapevo ancora nulla del mondo. E già mi sentivo sul tetto del mondo. Grazie a Pablito e a tutti quegli altri santoni calcistici della mia adolescenza.

Quando se ne vanno questi qui, quando se ne vanno così, si portano via un pezzo importante di un noi sempre più spoglio. Mannaggia a loro. (tratto da Facebook)