“Un ni vògghiu curùna”, dice Rosalia durante l’aristocratica vestizione. Ed è già una dichiarazione di rinuncia, come se la ragazza Sinibaldi, così come Palermo, sapesse già d’essere destinata a una nobiltà che dovesse comunque attraversare il sacrificio e la miseria, la malattia e la morte, il romitaggio sul Monte e il trionfale, salvifico passaggio lungo il Cassaro, sfarzosa e “sfardata” per sorte, due anime solo apparentemente incompatibili ma che si fondono insieme dacché la città fu fondata e la Santa, più avanti nei secoli, la mondò dall’impurità della peste.
E’ probabilmente questo il senso – o almeno l’intendimento più forte – di “R Patrona”, lo spettacolo (nato sotto l’egida dell’Ars, della Fondazione Federico II e dell’Associazione Kleis) che ha debuttato nel Cortile Maqueda di Palazzo Reale, quello dove con quasi certezza anche Rosalia, per nobili natali, mosse i suoi passi, non v’è comunque certezza se malvolentieri o no. E dove adesso per la prima volta, dopo secoli, è tornata, sotto forma di una splendida copia dell’edicola votiva più antica che si conosca, quella di piazza Monte di Pietà, che è anche l’icona che troneggia sullo spettacolo (ricavato dai canovacci di Salvo Licata e dal suo “Trionfo di Rosalia”, “drammatizzati” da Gigi Burruano e assemblato dalla regia di Clara Congera) che mette insieme le contraddizioni per l’appunto apparenti di una capitale di sfarzo e di “sfardo”, termini antitetici che assumono spesso una connotazione comune.
Anche “R Patrona” è lo specchio di questa antitesi nel suo mescolare linguaggi alti e bassi e varie forme d’arte, da quella dei pupari al dramma tout court, dalle rime popolari musicate dai “triunfisti” alla cantata aulica, dalla danza alla jonglerie, agli accenni a un cabaret terragno di temi contemporanei dove Palermo è capitale di cultura ma anche di “munnizza”, con uguale disincantata fierezza, città consapevole di inalberare pennacchi che non ha, tronfia e pavida insieme, sapiente e ignorante, bella di una bellezza da tutelare e in gran parte dissipata.
Ci sono la storia e la leggenda, la verità degli annali e i falsi della vulgata popolare, ma tutti hanno la stessa dignità e la stessa autorevolezza su questo lungo palcoscenico-pedana che fende il Cortile Maqueda e la platea e ai cui lati estremi ci sono il teatrino dell’opera dei pupi di Nicola e Dario Argento e gli straordinari musicisti che fanno da colonna sonora continua alla rappresentazione. In mezzo, sciamanti tra il pubblico, sulla balconata che corre lungo la Cappella Palatina, dal tetto e sulle colonne, in uno spazio agito a 360 gradi, gli attori, i cantanti, gli strumentisti, i danzatori, gli acrobati, lo sputafuoco sono la “corte” di Rosalia, una corte regale e stracciona, dal comandante “turco” Cavalà, con il suo harem di odalische e i suoi tesori, agli appestati, dagli angeli ai diavoli, alla Morte che occhieggia sempre misteriosa e avida contrapposta a madri derelitte ma combattive.
A tenere le fila di questa multiforme vocazione espressiva, quasi ad esserne il simbolo, a non far perdere i fili di questo ordito narrativo c’è Salvo Piparo che è contastorie e cuntista, cabarettista e attore drammatico che passa con spericolata, quasi sfrontata improntitudine da un linguaggio all’altro come non ci fossero confini eppure al tempo stesso tracciandoli, avvalendosi anche di un’empatia con il pubblico che si è ormai tramutata in un’affratellante complicità. Costanza Licata è Rosalia ed è come trovasse riparo nel suo romitaggio sui sacchi di juta, attorniata dai musicisti, una voce che s’è fatta più scura, meno stentorea, come più cosciente anche di propri accenti gravi. Straordinaria è Alessandra Salerno, un angelo che scaccia, con la limpidezza di una voce sublime (un’ugola indie che si piega con maestria e duttilità anche al folclore) e col pizzicato dell’autoharp, i demoniaci assalti del Male. Egle Mazzamuto è la Madre e la Luna, Alessandro Napolitano è il comandante “turco” Cavalà. E poi i pupari Argento, “manianti” e recitanti dentro e fuori il loro teatrino, il corpo di ballo di Virginia Gambino, gli acrobati diretti da Alessandro Scimonelli, i musicisti Michele Piccione, Ciccio Piras, Gioacchino Comparetto, Raffaele Pullara, Giuseppe Giordano e Luisa Cerami a fare anche da controcanto alle due voci protagoniste.
Al debutto gran parterre istituzionale, si va in scena ancora stasera ma sarebbe un peccato se le repliche non si moltiplicassero. Successo laico e popolarmente devoto insieme, proprio come la vocazione di ciò che s’era appena visto in scena.