Stavolta il distanziamento lo ha mantenuto il pubblico, non si sa se perché questo salutarsi di gomito, questo misurare i giusti centimetri di lontananza o vicinanza che si voglia siano ormai entrati nel nostro quotidiano costume di timorosi tanto da farci toccare con uguale discrezione mista a diffidenza perfino il telecomando. O perché l’autunno è speculare alla primavera, quella stagione che ci vide ostaggi del lockdown e quindi in buona parte di una visione forzata tanto da farci trovare, adesso, la scusa più banale per uscire di casa o riesumare sul pc le carte del solitario on line. Oppure perché – motivazione forse non peregrina – domenica scorsa dalla «zia Mara» c’era la solita compagnia di giro, Romina Power in testa che era stata ospite dell’ultima puntata della scorsa stagione, il 28 giugno, ed è ricomparsa nella prima della nuova, il 13 settembre, manco tre mesi, appena 76 giorni lontana dalla ex Dear sulla Nomentana, da quello studio, da quel salotto, da quelle ciacole. Fatto sta che alla prima uscita in mare del nuovo anno, il peschereccio di «Domenica in» è rientrato in porto con le reti leggere e un bottino insufficiente (poco più del 14% di share, il famoso 28 giugno aveva chiuso al 26%).
Ciacole, per l’appunto, como se dise da le parti de Mara, tra rii e campielli, ciacole di cui è fatta ormai la televisione e in specie quella della domenica pomeriggio, con la Venier da una parte e Barbarella D’Urso dall’altra. Il racconto di un’Italia che si loda e s’imbroda: su Rai1 con agiografie simil-divistiche della serie “anche il vip è uno di noi”, su Canale 5 col ritratto involontario e lubrico di una deriva antropologica, magari con tardivi propositi di redenzione, fiera comunque di fare Storia attraverso soldi e followers.
Dall’una l’angolo amicale, lo sparecchiatavola che poco ci manca che gli ospiti si presentino con la guantiera di pastarelle e la vetrinetta con Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, e via al dopopranzo del dì di festa, al “ma da quanto ci conosciamo noi due? da una vita!”, e la crostata di Rita Dalla Chiesa che “come me la fai tu non me la fa nessuna”, e l’olio che “mi mandi ogni anno da Cellino, Al Bano caro, quello bbbono spremuto dalle belle olive di Puglia” ed “ero molto vicina” alla tua mamma, al tuo babbo, al tu’ nonno e perfino alla prozia. Una formula, un mood più che altro, perché di stato d’animo talvolta artificioso si tratta, talmente sovraccarico che potrebbe (e forse domenica lo ha sortito) scatenare l’effetto parossistico e creare distanziante (ecco!) esclusione da club privé al posto di familiare, rasserenante inclusione, scivolare dal “volemose bene” al “ma che vonno questi qui?”.
Televisione di autoreferenzialità, di racconto e memoria di sé che non sempre – anche in casi di nazionalpopolare notorietà – si può pretendere collettiva. Televisione parlata perché non scritta. Non c’è più nessuno in tv che scriva per altri o di altri, sono soltanto “io” che a domanda rispondo. È un’operazione continua di domanda e risposta, infatti, di intervista perpetua («l’intervista è un articolo rubato», diceva Enzo Biagi riferendosi alla carta stampata), di scalettatura di argomenti e di filmati affannosamente cercati su Youtube (forse non scomodano nemmeno le pur ghiotte Teche di viale Mazzini) da un nugolo di autori-programmisti, e avanti così, di ospite in ospite. Un “ti ricordi quando?” dalla culla agli acciacchi dell’età, una rabdomantica ricerca di insignificanti episodi che avrebbero fatto la Storia (perfino riesumando levatrici credute già trapassate).
Insieme a Romina da «zia Mara» è arrivata Loretta Goggi (anche lei rediviva in un battito, assente su quella poltrona bianca dal 28 giugno: e pure stavolta, come per incanto, frecce nere e maledette primavere) e poi Anna Tatangelo che avevamo lasciato il 24 maggio bruna ex ragazza di periferia e ritroviamo il 13 settembre bionda e twerking e ancora Mika, altro personaggio ripescato dalle frange di fedelissimi della passata stagione, allegro il 12 aprile per la promozione del suo album e adesso in gramaglie per la sua Beirut. Segnateveli, questi nomi, ché di qui a giugno li ritroveremo in chissà quante altre domeniche.
Gli ospiti della D’Urso – pomeridiana e serale – nemmeno Signorini li ospiterebbe più nelle sue copertine: ex di ex di ex di ex (all’ennesima potenza) che la stessa Barbarella non ci si raccapezzava più e diceva “basta! basta!” proteggendosi il biondo frisson con entrambe le mani, starlette un tempo coverizzate ora soltanto covidizzate a causa di ore piccole smeralde che facevano ancora le sborone con tormentoni di spavaldo cinismo («la sola cosa che voi potete permettervi al Billionaire è il Covid!!!», rivendicava fiera Antonella Mosetti come a voler segnare le differenze, come a dire «io oltre al virus però mi sono scolata casse di champagne»), divi in disarmo finiti dritti dritti da «Beautiful» in un’aula di tribunale di Torino (pensa te!) per aver picchiato la moglie etc etc.
Solo al calar delle tenebre – forse per rispetto della fascia protetta – la D’Urso s’è concessa il momento hard che nel suo «Live» all’esordio di stagione sembrava più un angolo da Petrelluzzi o da Leosini con Fabrizio Corona e Angela “da Mondello”, entrambi impossibilitati ad essere in studio a Cologno poiché costretti a una territorialità limitata e vigilata per «problemi con la giustizia». Almeno con loro, sempre destinatari di sorrisi amicali e battutine confidenziali, un più concreto aggancio con l’Italia che va, ahinoi, per la maggiore, fra canotte, bicipiti tatuati e salsiccia mangiata cruda con le mani direttamente dal macellaio, in un trionfo di pienezza di sé con venature simil-splatter.
Nemmeno l’Italia posticcia dei reality sembra attrarre ormai più di tanto: perché se sulle corna di «Temptation Island» – griffate De Filippi e raccontate dalla Marcuzzi – hanno la meglio i droni sganciati da Alberto Angela su Roma e se il «Grande Fratello Vip» parte in ribasso rispetto alla scorsa edizione, qualcosa vorrà dire. Magari, a proposito di quest’ultimo, esattamente vent’anni fa, gli strusciamenti di due sconosciuti – il buon Taricone e Cristina, la Cenerentola triste – potevano forse intenerirci, intrigarci; oggi uno stimato professionista della musica di anni 77, di nome Fausto Leali, assurto a revisionista del Ventennio, instilla solo tristezza.