Vengo con questa mia addirvi – “addirvi” una parola – dei paradossi che il mix politica-affari-magistratura riesce a creare shakerando interessi diversi e divergenti fra persone diverse e divergenti. La sede del paradosso odierno è Siracusa che, dopo 2751 anni di storia patria, non s’è ancora stancata di stupire e, magari, di indignare.
La nuda cronaca.
L’ex sindaco Giancarlo Garozzo (ma anche il nuovo sindaco – ed ex vicesindaco – Francesco Italia) ha imperniato, anche comprensibilmente, tutta la sua comunicazione degli ultimi mesi sul “Sistema Siracusa”, l’intreccio di interessi economico-politici che due, ormai famigerati, avvocati, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, gestivano corrompendo, secondo le accuse, anche giudici per “aggiustare” sentenze o per aprire inchieste “pilotate”.
Il teorema politico-elettorale del sindaco era che c’è stato un gomblotto di loschi figuri non solo per mettere nei guai l’amministrazione condannata a pagare 24 milioni (2,8 già versati) per risarcire l’impresa di Rita Frontino, compagna di Calafiore, per i danni subiti nell’iter autorizzativo di un centro commerciale, ma anche per montare una serie di polemiche e accuse e denunce nei confronti dell’amministrazione a scopo intimidatorio. Erano in tempi in cui Siracusa passava – con tanto di ammuina nell’arena di Giletti – per il Comune più inquisito d’Italia.
E insomma, Garozzo e Italia, hanno vissuto questa inchiesta, e gli arresti relativi, come una sorta di vendetta e riabilitazione politica globale. Messaggio che forse in qualche modo è passato se l’ex vicesindaco è stato, abbastanza a sorpresa, eletto sindaco, sbaragliando gli altri candidati della sinistra a primo turno e quello della destra al ballottaggio.
E fin qui siamo nella banalità della presunta corruzione e della “revanche” di chi s’è sentito ingiustamente accusato e cavalca il cavallo che gli hanno regalato per attuare la sua nemesi.
Ma.
Ma il paradosso è lì dietro l’angolo e forse non vien colto da chi (per consolidata antipatia verso il toscano) per pensa di computare fra le colpe di Matteo Renzi il recente arresto del giudice amministrativo Giuseppe Mineo, nell’ambito della stessa inchiesta in cui pare sia Amara che Calafiore stiano raccontando tante cose agli inquirenti. Scrive repubblica.it: “Giuseppe Mineo… già salito agli onori delle cronache nazionali due anni fa quando fu indicato dall’ex premier Matteo Renzi nella lista dei nuovi giudici del Consiglio di Stato nonostante fosse stato sanzionato per il ritardo con cui depositava le sentenze”. Rincara la dose il Fatto Quotidiano: “Proprio l’ex segretario del Pd ai tempi di Palazzo Chigi voleva nominare al Consiglio di Stato Giuseppe Mineo, altro ex giudice che è finito agli arresti stamattina”… che “avrebbe ricevuto 115mila euro per sovvertire due sentenze care ad Amara e Calafiore”.
E così il complotto politico affaristico contro il sindaco Garozzo avrebbe avuto come strumento consapevole il giudice sponsorizzato da Matteo Renzi per il Consiglio di Stato. Ma Garozzo era a sua volta sponsorizzatissimo dall’uomo di Rignano che venne da segretario PD a fargli un comizio elettorale nel 2013 e da Presidente del Consiglio in visita pastorale in città, con annessa indimenticabile canzoncina di benvenuto degli alunni di una scuola, in modalità da fare invidia a Kim Jong-un.
E nella politica liquida in cui le appartenenze sono desaparecide o comunque, come nel giorno della marmotta, si reinventano ogni giorno, nella comunicazione via social dove il tifo cancella l’informazione, i supporter di Garozzo sbandierano e condividono i link dei giornali che ignorano Garozzo ma mettono sotto accusa il leader di Garozzo.
Renzi diventa al contempo, politicamente, imputato e parte offesa. Sponsor della vittima ma anche del carnefice. Si dipana un gioco di ignoranze/indifferenze incrociate (a Roma non sanno che Garozzo è renziano, a Siracusa non colgono la contraddizione e comunque Renzi è ormai superato, come le musicassette e la carta carbone).
Resta l’impressione acida che in questa storia, come in tante altre di questi tempi, la politica non sia nemmeno il fine, ma solo il mezzo per il perseguimento di interessi e come tale sostenuta o avversata, senza distinzioni di colore, o di schieramento. Senza distinzioni di ideali o ideologie, che sono ormai solo sporadiche memorie di desueta retorica novecentesca.