La prova muscolare di Musumeci, come ogni cosa in politica, divide: i fan invasati e adoranti, compresi gli assessori e i partiti della maggioranza, esaltano il senso della conquista, dei pugni battuti sul tavolo, della redenzione di un’isola sempre più isolata. Taluni, i contenuti e il messaggio (finalmente di destra). Gli altri, le opposizioni, la giudicano eccessiva e velleitaria, talvolta disumana, premurandosi di valutare, e condannare, i toni salviniani e la leggerezza dell’annuncio. Fino alla decisione estrema: mandare le carte in tribunale – Davide Faraone ha sporto denuncia per “procurato allarme” – dove si svolgerà il secondo round.
Sono i giorni tristi del Coronavirus, che oltre a riconsegnarci le ferite di una terra già debole di suo, e mettere in mostra i vezzi e le abitudini della nostra classe dirigente, vede la Sicilia avventurarsi nelle falde del populismo più sfrenato: un modo per distogliere l’attenzione dai problemi veri, che i siciliani ormai hanno imparato a sopportare, e aprire le danze in attesa delle prossime competizioni elettorali. Salvini userà i voti di Puglia, Marche e via discorrendo per assestare un colpo al governo Conte. Lo ripete ogni volta. Ma anche la Sicilia, con questa spavalda operazione di chiudere le porte ai migranti e arrestare l’”invasione”, potrà contribuire in maniera determinante a rilanciare l’appeal di un partito che dopo il Papeete ha innescato la retromarcia. Qui, però, oltre a giocare sulla pelle dei profughi, si gioca soprattutto su quella dei siciliani. Che osservano le manovre ai piani alti, compresa la sfida a colpi di machete fra Palermo e Roma, con amarezza e disincanto.
D’altronde è risaputo che le prove di forza, anche le più spietate, rischiano di infrangersi sui muri di gomma. Ed esaurirsi in fretta. Infatti, alle 24 di lunedì, nessuno degli hotspot era stato sgomberato. Gli unici migranti andati via da Pozzallo, grazie all’accordo fra il sindaco locale, Roberto Ammatuna, la prefettura di Ragusa e il Ministero dell’Interno, non sono il frutto della forzatura del colonnello Nello. Quell’ordinanza, e le spiegazioni venute dopo, contengono al loro interno parecchie contraddizioni: com’è possibile, ad esempio, svuotare un centro d’accoglienza ancor prima che si sia proceduto – tramite le Asp e la task force nuova di zecca – a valutarne le condizioni igieniche? Ci vorrà del tempo perché la Regione completi la sua ricognizione. L’impugnativa del Consiglio dei Ministri farà il resto, ma il termine delle 48 ore si è già rivelato per quello che è: propaganda.
La propaganda è un ottimo strumento per ammazzare il tempo, nell’attesa che arrivi la politica. E la politica non arriva quasi mai. Tanto più in Sicilia. Prendete Cateno De Luca, il guitto dello Stretto. Aveva occupato il porto di Messina, in piena pandemia, per impedire fisicamente gli sbarchi a chi arrivava dal continente. Aveva istituito una piattaforma online per regolare gli accessi, fatto terrorismo psicologico coi droni, responsabilizzato la nazione a suon di ordinanze. E inseguito un’auto sgarupata, con dei francesi a bordo, che avevano solcato il Mediterraneo indisturbati e senza un ragionevole motivo. E cos’ha ottenuto? Niente, al netto di un mucchio di interviste e di una denuncia per vilipendio da parte del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, pesantemente offesa. “Andrò a processo per il diritto di lesa maestà”, l’ha sfidata – poi – il primo cittadino.
L’attuale Musumeci è l’ultima versione di De Luca. Un tantino più elegante. Sempre con la cravatta e meno incline al torpiloquio. Lo stesso Cateno, sorpreso dal guizzo del governatore, gli ha assestato subito un calcio negli stinchi. Di quelli che Musumeci, parole sue, è abituato a ricevere spesso. Il sindaco di Messina, infatti, l’ha definito un “utile idiota”, chiedendogli di smentire che le ultime mosse fossero dettate (solo) dalla brama di scavalcarlo. Se così non fosse, gli ha suggerito di dimettersi: “Non posso sopportare che il Presidente della Regione siciliana passi per un pessimo imitatore del sindaco – aveva esordito un paio di giorni prima –. Era tempo che si svegliasse. Ora guidi il popolo siciliano alla sommossa”. Come se fosse possibile una sommossa. Come se i siciliani non avessero altre beghe da risolvere, ma solo una gran voglia di saltare sul carro del populista di turno, gonfiandone a dismisura l’ego. Dandogli la sensazione – ma solo quella – di aver fatto la cosa giusta. E di aver vinto sfida a chi la spara più grossa. Una guerra fra macchiette.
Oltre ai due che si contendono la prossima poltrona da governatore – o, almeno, la nomination del centrodestra – facendo a gara per attirare le simpatie di Salvini, ce n’è un terzo che agisce nell’ombra. Che non ha saputo sbrogliare la matassa del bilancio, né sbloccare la Finanziaria di cartone. Tanto meno placare le ire della Corte dei Conti, che per la Sicilia prefigura il panico. Eppure anche lui, il bullo de noantri, è un ottimista di natura. Non si rammarica di niente, fa il presidente di questo e di quell’altro, frequenta i palazzi più belli e le persone più influenti. Viaggia di continuo, fra Roma e Bruxelles. Se ne sta sempre in copertina senza aver risolto un problema. Rispetto ai contender, ha un forte handicap: urla poco. Per questo non sarà mai presidente.
Tutti pensano di fare qualcosa di utile – persino Faraone con la denuncia alla Procura di Agrigento, o Candiani, che con saggezza quasi platonica, continua a sottolineare le condizioni “disumane” di certi hotspot – ma nessuno si occupa davvero di risolvere i problemi. E’ come se avessero le mani legate. E’ più facile produrre comunicati stampa, e inondare i giornali, che azionare il cervello e individuare soluzioni. Verosimili, va da sé. Non appena la guerra dell’ordinanza potrà dirsi conclusa (con l’impugnativa da parte di Roma e la battaglia di fronte al Tar), i nostri personaggi in cerca d’autore – di cui è piena la politica siciliana – si metteranno alla ricerca di una nuova storia. A uso e consumo soltanto loro.