Gianfranco Miccichè è tornato a chiedere un cambio d’atteggiamento al governatore Musumeci. Ma anche fra le righe di un’intervista di Saverio Romano a Live Sicilia, emerge chiaro un indirizzo: sconti a nessuno. Il leader del Cantiere Popolare, per il momento, non firma cambiali in bianco. Ed evita di pronunciarsi su un’esperienza politica che non lo soddisfa granché: “E’ prematuro dire cosa accadrà fra due anni. La sosteniamo, ma tutte le esperienze iniziano e finiscono”. I messaggi velati di metà legislatura – il centrodestra ha tante frecce al proprio arco – stanno rendendo amarognola l’estate di Musumeci. La cui unica assicurazione sul futuro si chiama Matteo Salvini. E’ stato l’unico, Musumeci, ad aver espresso la propria solidarietà all’ex Ministro per la decisione del Senato di mandarlo a processo. Nemmeno il gruppo del Carroccio all’Ars ha fatto tanto.
Più in generale, il presidente della Regione sta combattendo le battaglie del ‘capitano’: duro, durissimo con il governo nazionale sulla questione migranti, e irreprensibile con gli scansafatiche (i dipendenti regionali). Senza che nessuno, della propria coalizione, gli offra una sponda. Sarà che l’estate si è fatta torrida ed è venuta meno la voglia di sfiancare gli uffici stampa. Ma di recente le uscite di Musumeci sono accompagnate da un silenzio strano. Soltanto gli assessori, specie i più fedeli, giocano a rimpiattino con lui. Gli altri si defilano e (spesso) non condividono le sue sparate. Anzi, sono più le punzecchiature che gli elogi: l’ex amico Raffaele Stancanelli, massima espressione di Fratelli d’Italia nell’Isola, non ha mai digerito che il governatore considerasse il partito della Meloni “un partitino da 2 o 3%”, e non ha esitato a metterne in discussioni le doti da leader. Ultimamente, a Buttanissima, lo ha beccato anche sulle accuse al personale: “Io non avrei mai sparato nel mucchio, forse è la stanchezza…”.
Ma anche altri due compagni d’avventura, come il “rivale” Gianfranco Micciché e il temerario Cateno De Luca, hanno battuto altri percorsi. Il primo, nelle vesti di presidente dell’Ars, lo ha ripreso senza ritegno dopo gli attacchi in aula a Sammartino, e per i frequenti maltrattamenti nei confronti del parlamento siciliano (mentre, da leader di Forza Italia, è ancora in attesa di un rimpasto bollato come “urgente”); l’altro, il sindaco Scateno, lo insulta un giorno sì e l’altro pure. Come, la settimana scorsa, sul tema dell’assistenza ai disabili: “Musumeci piuttosto che continuare a romperci i ma… con i migranti perché non risolvi la paradossale vicenda degli studenti affetti da disabilità che resteranno privi di assistenza igienico personale? Tra poco sarò a Palermo per mandarvi a fare in cu…”. Il rapporto si è incrinato all’alba della pandemia, per la nota vicenda del controllo dello Stretto. Musumeci non ha mai replicato al sindaco: sul piano della rissa verbale non c’è partita.
Lo stesso Saverio Romano, moderato di natura e d’ideologia, che è il baricentro di una coalizione pronta a implodere, in più di un’occasione ha lamentato i mancato coinvolgimento dei partiti che gli hanno permesso di vincere le elezioni. Mentre Micciché ha rimarcato il fatto che il governatore sia “mal consigliato”, aggiungendo che serve “un maggiore rispetto per i partiti. Credo che una delle mancanze di questo governo sono state le riunioni di maggioranza, ce ne sono state due o tre, troppo poche, quelle sono la vita di una coalizione”. Una serie di indizi che suonano come feroci scalpellate al progetto Nello 2.0: una ricandidatura a Palazzo d’Orleans. L’uscita di scena (momentanea) di Salvo Pogliese – condannato in primo grado per la vicenda delle spese pazze e sospeso per 18 mesi da sindaco – non ha semplificato granché i piani di Musumeci, la cui indole da “sergente di ferro” e “comandante in capo” è poco apprezzata dai compagni di merenda. Nemmeno sulle Amministrative si è raggiunta la quadra. E persino la Lega, a un certo punto, sembrava a un passo dalla frattura. Il segretario Candiani, d’altronde, non ha mai provato infatuazioni (politiche, s’intende) per il governatore di Militello.
Musumeci, in questa fase, paga un eccesso di protagonismo e di decisionismo. Il virus lo ha rafforzato nelle classifiche di gradimento, ma lo ha indebolito agli occhi degli alleati. E il percorso è pieno di trappole. Il fallimento più grande del primo scorcio di legislatura è, senza timore di smentita, la gestione finanziaria della Regione. Complice, ovviamente, Gaetano Armao. Musumeci ricorderà per sempre il giorno in cui si presentò in piazza San Domenico, all’istituto di Storia Patria, per il giudizio di parifica della Corte dei Conti. Era il 13 dicembre dell’anno scorso, prese scappellotti a destra e a manca. Gli dissero che il disavanzo era mostruoso e sarebbe servita una maxi opera di risanamento per evitare il default. Il Consiglio dei Ministri gli concesse di spalmare un miliardo in dieci anni, in cambio di un pacchetto di riforme oneroso ma irrinunciabile. Quelle che Armao, da esperto assessore all’Economia e collaudato influencer (del governatore), definì “cure da cavallo”. Ma la Regione non s’è mai impegnata per attuarle e, a distanza di mesi, quell’accordo rimane solo sulla carta. La razionalizzazione delle società partecipate, uno dei punti dirimenti dell’impegno assunto con lo Stato, sono tutte vive e vegete. Alcune vengono rifocillate con stanziamenti onerosi (vedi Riscossione Sicilia, che ha ottenuto 25 milioni dall’ultima Legge di Stabilità), altre vengono liquidate, altre ancora cambiano nome e si rigenerano. Un assist agli sprechi.
Ma l’altro aspetto iracondo di questa legislatura sono i rapporti istituzionali con Roma. La gestione della pandemia, l’accoglienza dei migranti, le infrastrutture: storie di tensione che fanno venir meno l’efficienza dell’esecutivo. Anziché ottenere investimenti e opere pubbliche, le febbrili discussioni tra Falcone e Cancelleri hanno indotto alla stasi: niente commissario per la viabilità secondaria, la Ragusa-Catania ancora ferma, il ponte di Messina fuori dalle opere strategiche. Mentre sui migranti, i ripetuti inviti a vergognarsi nei confronti della ministra dell’Interno Lamorgese, rea di far sbarcare chiunque, ha portato a malapena in dote una nave per garantire la quarantena dei profughi. E la promessa di schierare l’esercito in alcuni punti sensibili. Gli hotspot però rimangono aperti e affollati, e il turismo si frantuma. Anche la pandemia ha portato con sé numerosi strali: dalle mascherine alle riaperture, passando per l’applicazione dell’art. 31 e i controlli sullo Stretto, non c’è stata una sola occasione in cui si è smesso di polemizzare e si è iniziato a collaborare. Se Musumeci, per farlo, aspetta che al governo torni la destra, rischia di aver già finito i suoi giorni da presidente.
L’unico accordo semi-chiuso, nell’ultimo periodo, è quello al Ministero dell’Economia, che ha concesso alle regioni di risparmiare sul contributo alla Finanza pubblica: 780 milioni, per quest’anno, rimarranno nei cassetti di palazzo d’Orleans, che potrà decidere di reimpiegarli, magari sbloccando alcune misure della Finanziaria che non sono direttamente collegate alla rimodulazione delle risorse extraregionali (Poc e Fesr). Magari. Perché, vedete, la Finanziaria 2020 è un’esperienza, forse la più disastrosa, che non può passare in cavalleria: oltre ai contenuti, di per sé ritenuti accettabili dal Consiglio dei Ministri (che ha impugnato un solo articolo), la giunta e i dipartimenti non sono riusciti a sbloccare un euro. La ricognizione effettuata fin qui, a tre mesi dal via libera dell’Ars, ha permesso di individuare appena 400 milioni – su 1,4 miliardi – da “riprogrammare”. Serve, però, l’approvazione di Bruxelles. Poi occorrerà una seconda delibera, e l’approvazione di Roma. Sembra di essere commissariati anche per l’aria che respiriamo. Ma nel frattempo l’emergenza, comprensiva di imprese e lavoratori, è andata a farsi friggere.
E’ ancora presto per parlare della sua riconferma. Ma, a conti fatti, Musumeci non soddisfa. Né Forza Italia, che non vorrà svenarsi per dare al governatore una seconda chance; né Fratelli d’Italia, che fin qui ha retto la candela senza fare troppe storie; tanto meno i centristi, allergici a un eccesso di leghismo. Rimane il Carroccio, che nei prossimi mesi potrebbe finalizzare un accordo, alias federazione, che permetta a entrambi i contenitori – Lega e Diventerà Bellissima – di tirare su qualche volto anche alle prossime Politiche. E giustificare una trait d’union che, al di là degli sforzi, in tanti non capiscono. Per l’assenza di vissuto e di valori condivisi.