Sono riprese le iscrizioni al partito del virus. Tre i requisiti necessari: una discreta dose di catastrofismo, una plateale esposizione mediatica e una chiara predisposizione al comando. E per favore: astenersi perditempo. Intanto i virologi si sono portati avanti, ma anche i dati ufficiali – l’unico è il bollettino giornaliero del Ministero della Salute – non scherzano: siamo a un passo dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia Romagna. Non si contano più i morti o gli “attuali positivi” (se ne sono aggiunti 14 soltanto ieri). Tanto meno il pregresso, che ci indurrebbe a pensare alla Sicilia come un’isola Covid Free. L’unico metro che ci fa saltare sulla sedia è l’indice Rt, ossia il tasso di contagiosità dopo l’applicazione delle misure atte a contenere il diffondersi della malattia. In parole povere, la capacità da parte di un singolo “positivo” di contagiarne un altro. Con il suo 0,88, poco sotto la media nazionale (0,95), ma in netto aumento rispetto a qualche settimana fa (siamo partiti da 0,14), la Sicilia tallona le regioni del Nord. La soglia certificata del rischio, da tenere a bada, è 1,00.

Fare apparire questo numero per quello che non è, significherebbe però dare un calcio al secchio del latte appena munto. In quel secchio, fra l’altro, ci stanno i milioni di turisti (circa tre) che hanno scelto di trascorrere quaggiù la loro vacanza “di prossimità”. Secondo una recente analisi di Airbnb, il colosso delle strutture ricettive, 8 italiani su 10 passerebbero le ferie sull’Isola. Anche se la Regione, di questo passo, non gli regalerà mai un voucher (per i 75 milioni promessi dall’assessore Messina, magari, se ne riparlerà a Natale). E i gruppi, su Facebook, pullulano di curiosità: ad esempio, in tanti chiedono quanto ci si metta per andare da Ortigia a Selinunte (meglio non saperlo), se il barocco di Ibla vale le spiagge di Mazara, e via discorrendo. Peccato che quando la macchina si è rimessa in moto, noi siciliani, per lo più disfattisti, tiriamo fuori l’indice Rt. E la storia dei migranti, vecchia come il mondo.

Ed è proprio sui migranti, coi sindacati di polizia che parlano di 25 “positivi” (quando i positivi, che vengono definiti tali sulla base dei tamponi effettuati, sono in realtà zero: ze-ro), che casca l’asino. Gli arrivi dal mare, infatti, sono l’ultima sciagura. Lampedusa ne sta inevitabilmente risentendo, nonostante il luccichio dell’isola dei Conigli sia lontano anni luce dalle immagini devastanti del molo, dove i profughi finiscono stipati, con la mascherina, in attesa che qualcuno se ne occupi. Ma i contagiati non sono venticinque. Venticinque, semmai, sono le persone risultate positive al sierologico. I tamponi – come ha riferito l’assessore alla Salute, Ruggero Razza – hanno dato tutti esito negativo. Per questo collegare direttamente le due cose – migrazioni e malattia – sarebbe ingiusto oltre che incauto. Devia la realtà, che già è difficile da controllare e tenere a bada.

Una cosa è il virus, un’altra sono gli sbarchi. Uno che, dalla presenza costante di barchette e barchini nel Mediterraneo, esce certamente rafforzato, è Matteo Salvini: “Perché il governo importa immigrati infetti?”, ha chiesto il segretario della Lega, senza troppi giri di parole. Ma anche Nello Musumeci, più o meno, parla la stessa lingua, e ha utilizzato il pretesto Lampedusa per tornare a scontrarsi con il governo centrale e con la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese: “Vorrei fosse chiaro che non si tratta solo di una emergenza sanitaria, per la quale la Regione sta facendo di tutto per assicurare la sicurezza dei cittadini siciliani e di chiunque arriva nell’Isola. C’è una emergenza politica senza precedenti: perché a parità di condizioni climatiche rispetto allo scorso anno gli arrivi aumentano in modo così sensibile?”.

La domanda è perché mischiare le due cose e, nel frattempo, consentire – anche se qui le responsabilità di Musumeci ricadono sui sindaci, veri depositari delle sue ordinanze – assembramenti in riva al mare, balli di gruppo e aperitivi condivisi. Questo accade in tutte le spiagge, o nelle vie della movida. Se un assembramento è vietato, va vietato. Aumentando i controlli, imponendo sanzioni. E’ più facile beccarsi il virus sulla battigia, strusciando i bacini, o all’hotspot di contrada Imbriacola, dove un migliaio di disperati – decisamente troppi – al massimo si accalcano fuori dalla toilette?

A questo tema il presidente della Regione, impegnatissimo su ponti aerei e navi-quarantena (argomentazioni legittime, ma non da adesso), ha dedicato un semplice richiamo: “Faccio appello a una maggiore disciplina collettiva. Evitate gli assembramenti, usate la mascherina e mantenete la distanza. Tutto questo può costituire un piccolo fastidio, ma ci dà un grande aiuto nel tenere bassa la probabilità del contagio. Confidiamo perciò nel senso di responsabilità di ognuno -soprattutto dei giovani – e nella accurata vigilanza delle Forze dell’ordine. Vorremmo evitare di adottare nei prossimi giorni misure restrittive, ma non ci sentiamo di escluderle”. Uno dei passaggi più “moderati” di questa pandemia, dove Musumeci ci ha abituato a ben altro, compresa la richiesta di poteri speciali e di comandare l’esercito. Anche se dall’ultima frase – quella sulle misure restrittive – emerge il ghigno dell’uomo solo al comando. Dell’indomito colonnello schierato a difesa del popolo.

Se ci fosse un partito del virus, la prima tessera sarebbe del governatore. La numero due, però, spetterebbe di diritto a Cateno De Luca, sindaco di Messina, che negli ultimi tempi è stato assorbito da altre questioni. Scateno, infatti, ha relegato in secondo piano il cluster che, nelle ultime ore, ha colpito la sua provincia (all’istituto ortopedico di Ganzirri, dove 9 persone, fra pazienti e operatori, sono stati “intaccati”) e preferito cavalcare il tema dei migranti, divenuto troppo ghiotto. Con una ordinanza aveva deciso di chiudere l’hotspot di Bisconte, da cui erano fuggiti una ventina di extracomunitari. Il prefetto l’ha ammorbidito, e Scateno incredibilmente s’è adeguato. Questa settimana De Luca volerà a Roma, in audizione alla Camera, per parlare delle baracche di Messina. Ma se i numeri del contagio tornassero imponenti, potrebbe sempre far librare in aria i droni, inveire col suo vocione da duro, e riconquistarsi qualche ospitata televisiva.

Ma in tv per il momento regnano i virologi. L’unico a farci veramente coraggio è il professor Alberto Zangrillo, del San Raffaele di Milano, che sostiene la perdita di virulenza del Covid e ne ha le “palle piene” dei pessimisti. Mentre il professor Carmelo Iacobello, primario del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Cannizzaro di Catania, ha smesso di pensare che il peggio sia alle spalle. L’ha fatto, però, con senno, senza fare delle sue opinioni un credo. E soprattutto senza allarmismi, che è meritorio di per sé: “Ho perso un po’ di ottimismo perché secondo me il problema non è tanto della recrudescenza del virus interno, ma di quello che stiamo importando dall’estero – ha detto in un’intervista a Live Sicilia -. Qui bisognerebbe mettersi d’accordo. O facciamo un ragionamento di sanità pubblica e non si guarda in faccia nessuno, oppure rischiamo di non poter affrontare il problema. Se noi associamo il virus al razzismo ne usciremo sconfitti – ha aggiunto -. Dobbiamo monitorare gli arrivi degli americani del Nord, dei sudamericani, dei migranti del Bangladesh, di quelli dell’Est europeo e aprire gli occhi su tutto quello che sta succedendo intorno a noi”.

Un invito chiaro a smettere di pensare che il Covid arrivi coi barconi. Questo è un argomento funzionale a Salvini e alla paura, non di certo alla Sicilia. Che è appena ripartita e non può più fermarsi. Ve lo immaginate un altro lockdown per un’economia già disastrata?