Il primo istinto sarebbe quello di cedere a un’innocente volgarità e dire – con la crudezza imposta dalle cose – che lo hanno preso per il culo. Ma una frase così aspra finirebbe per suonare irriverente per Nino Di Matteo, il magistrato che negli ultimi dieci anni ha collezionato solo trionfi, lodi e ovazioni. Ha creduto nella Trattativa ed è riuscito, da pubblico ministero, a ottenere dalla Corte di Assise di Palermo una sentenza che infligge pesanti condanne ai boss di Cosa nostra e a due generali dei carabinieri, tutti colpevoli di avere traccheggiato in maniera obliqua e furbesca sulla pelle delle istituzioni democratiche.

Ha tentato con ogni mezzo e con tante interviste di rivelare al mondo le trame oscure che stanno dietro agli ultimi trent’anni di vita politica italiana ed è entrato nel mirino di Totò Riina, il mammasantissima delle stragi, il quale non ha mancato occasione per fargli sapere che lo vuole morto. E’ l’uomo più scortato d’Italia e, fortunatamente, anche il più amato: almeno centoventi città, piccole e grandi, gli hanno conferito la cittadinanza onoraria e non c’è dibattito su mafia e antimafia dove il protagonista non debba essere lui, con le sue teorie impastate di coraggio e di azzardo ma elaborate con la nobilissima intenzione di debellare intrighi e consorterie, complicità e collusioni, malavita e corruzione.

Eppure, nonostante questo medagliere fulgido di ori e di vittorie, l’eroe Nino Di Matteo è stato incredibilmente e cinicamente turlupinato. Quei magliari del Movimento cinque stelle che poco meno di un anno fa lo avevano addirittura indicato come futuro ministro della Giustizia, al momento decisivo lo hanno posato. Gli hanno preferito il politico Alfonso Bonafede, legatissimo a Luigi Di Maio: un “uomo di apparato”, si sarebbe detto negli anni della Prima Repubblica.

Ma la turlupinatura non si è fermata alla stazione romana di Via Arenula, sede del ministero. Ha continuato a girare inesorabile, come una giostra, con tutti i cavallucci luccicanti sui quali Di Matteo avrebbe dovuto salire ma, all’ultimo momento, non è salito perché a ogni salto ha trovato il cavalluccio già occupato da altri pretendenti. Chi lo avrebbe mai detto. Nel luglio dell’anno scorso, quando Beppe Grillo lo indicò come l’uomo ideale per guidare e attuare il “sistema giustizia” ipotizzato dai Cinque stelle, il pm della Trattativa sembrava destinato a una carriera inarrestabile, a una cavalcata impetuosa lungo il crinale che tiene insieme potere politico e potere giudiziario. Invece quei fanfaroni del Movimento grillino gli hanno riservato una carriera a scendere anziché a salire; perché a ogni promessa è seguita puntualmente una crudelissima marcia indietro. Fino al nulla. Ripercorriamola allora questa carriera all’incontrario: potrebbe anche dimostrare che il dogma populista dell’uno vale uno non accetta gli eroi, nemmeno dopo averli utilizzati come strumenti di propaganda per rastrellare voti e consenso.

Fallita la nomina a ministro Guardasigilli, i puri e duri dei Cinque stelle avevano dato per scontato che Di Matteo sarebbe stato quantomeno nominato sottosegretario, con il preciso scopo di sostenere e valorizzare l’impegnativo programma di Bonafede. Ma anche questo sogno è svanito, come si dice, nello spazio di un mattino: Salvini e Di Maio, i due uomini forti del governo presieduto da Giuseppe Conte, hanno preferito piazzare nelle stanze del potere ministeriale i loro fedelissimi ed evitare così qualsiasi incognita. Ma il nome di Nino Di Matteo è rimasto sempre e comunque a galla. Al punto che il furbo Bonafede, per non deludere l’ala giustizialista del Movimento, ha addirittura ipotizzato per lui l’incarico che fu di Giovanni Falcone: la Direzione della giustizia penale.

Sarebbe stata una incoronazione, anche dal punto di vista simbolico: quale magistrato non ha sognato almeno una volta di occupare la scrivania che fu del giudice coraggioso, massacrato 26 anni fa dalla mafia nell’attentato di Capaci? Ma tra il dire di Bonafede e il fare della nomina si è frapposto un ostacolo insormontabile: quella prestigiosa direzione era stata già assegnata nell’aprile scorso dall’ex ministro Andrea Orlando con il sigillo di un contratto triennale sottoscritto da Donatella Donati, un magistrato che negli ultimi due anni era stata la figura di punta nello staff di Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia del governo Gentiloni.

Pazienza. Altro giro altra corsa. Sfumata la Direzione della giustizia penale, nelle stanze di Via Arenula si affaccia l’ipotesi del Dap, il potentissimo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un impero al quale il ministero assegna non solo il compito ma anche i tanti soldi necessari per governare le carceri d’Italia. Di Matteo che per anni si è occupato di mafia e carcere duro, sembra il candidato fatto su misura. E la conquista di questa poltrona gli sarà anche apparsa vicina perché Bonafede, nei giorni immediatamente successivi al suo insediamento, chiede al Consiglio superiore della magistratura la collocazione fuori ruolo di sette magistrati e tra questi, ohibò, c’è pure lui, l’ex pm della Trattativa, oggi sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia. La cosa sembra fatta, tanto che il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria fa filtrare l’indiscrezione secondo la quale alcuni ergastolani murati al 41 bis avrebbero mostrato preoccupazione per l’arrivo del magistrato palermitano: “Se viene questo siamo consumati”, avrebbero detto.

Ma l’entusiasmo dell’ala più osannante dei Cinque stelle precipita misteriosamente in una ennesima delusione: il ministro Bonafede, con una mossa a sorpresa, disarciona le speranze costruite dai fan attorno a Di Matteo e nomina al vertice del Dap un magistrato che non ha al suo attivo né un medagliere dorato, né un libro appena pubblicato, né una cittadinanza onoraria, né un fitto album di interviste rilasciate a destra e a manca come fossero pane quotidiano. Il magistrato scelto dal ministro per quell’incarico così importante e all’un tempo così delicato è semplicemente Francesco Basentini, attuale procuratore aggiunto di Potenza.

Nessuno al momento è in grado di sapere se Bonafede abbia ritenuto opportuno e doveroso spiegare a Di Matteo le ragioni della sua scelta. L’unica certezza, finora, è che il magistrato più minacciato, più scortato, più applaudito nei convegni e politicamente più esposto nelle platee grilline, ha vissuto una favola rovesciata: doveva diventare generale di corpo d’armata ed è rimasto brigadiere. A piedi, come un bambino abbandonato alla fermata dell’autobus.