Il calvario lombardo moltissimo ci addolora, perché la Lombardia non è dei lombardi, che sarebbe poca cosa, ma è degli italiani e del mondo.

A Milano ho fatto alcune tra le mie esperienze più importanti, lì ho frequentato la più antica scuola teatrale d’Europa, l’Accademia dei Filodrammatici, annessa al magnifico, omonimo teatro, accanto alla Scala, che era stato, già alla fine del XVIII secolo, “l’arsenale delle apparizioni” della nobiltà ambrosiana. Ho conosciuto artisti vertiginosi, ho respirato l’ottimismo operoso degli anni ’80, la velocità, il futuro. Oggi a Milano studia Elisabetta, che si muove tra i navigli e il duomo, con la cappa e lo spadino, nella romantica uniforme senza tempo dei cadetti, ma col passo naturalmente cosmopolita della sua generazione.

Milano è Manzoni, Verri e Beccaria, ossia i fondamenti culturali e morali della formazione di un giurista scettico, che negli anni universitari delle leggi speciali teneva la Storia della colonna infame, e il Consiglio d’Egitto del manzoniano Sciascia, accanto al manuale di diritto penale. Milanesi e lombardi sono molti degli eroi risorgimentali, che nei retorici libri di storia delle nostre medie infiammavano i nostri cuori di figliastri d’Italia, pronipoti dei contadini del Regno delle due Sicilie, astutamente annessi e crudelmente repressi dai Savoia. Quanta simpatia e quanta pietà, a noi nati vinti, ispiravano i ritratti di due capitani dell’insurrezione del 18 marzo del 1848, i repubblicani Luciano Manara e Carlo Cattaneo, morti illusi e sconfitti, il primo nella difesa della Repubblica Romana, il secondo in un brumoso esilio elvetico.

Recupero queste suggestioni per convincermi che anche noi italiani del sud non possiamo che essere cari agli italiani del nord, per il contributo di storia e di pensiero, di sofferenza umana e di genio, portato alla causa comune, all’Italia finalmente unita dopo un particolarismo politico durato molti secoli. Voglio, debbo convincermi che persino la nostra diversità di carattere, di costume, di spirito sia cara ai milanesi e ai lombardi, che essendo abilissimi imprenditori conoscono il valore del vario e del molteplice. Voglio e debbo credere che non ci siano milanesi e lombardi così insipienti da trascurare l’apporto della nostra manodopera ignorante e contadina nella costruzione del miracolo industriale del dopoguerra, che li ha resi ricchi tra i più ricchi del pianeta. Voglio e debbo, infine, ritenere che il direttore di Libero, quando si esprime nelle forme sgradevoli a cui ci ha abituati, parli in nome e per conto proprio, unicamente agito da un livore personale, dall’invidia della vita, dall’incapacità di fare come gli anziani saggi del mio paese, che esaurito il loro ciclo produttivo, stanno, assolati e quieti, nella pacifica rassegna dei nipoti e dei giorni andati, seduti sull’uscio di una casa bassa, in attesa che una buona moglie li chiami per il pranzo.