Secondo la vulgata, così come non ci sono più le mezze stagioni, non c’è più il Commissario Montalbano. Quello di un tempo, almeno. Perfino gli aficionados più accaniti, gli onnipresenti davanti alla tv per ogni debutto ma anche per ogni replica, le groupies zingarettiane (d’accordo solo sulla buona tenuta del fisico del Nostro durante le nuotate dell’alba e del tramonto), i feticisti accalappiati dall’astuto grand tour sui luoghi del set, hanno abbozzato mezze smorfie. Certo, stavolta, per i due nuovi episodi che Rai1 ha offerto in due lunedì successivi c’era il peso del “post mortem”: passati a miglior vita in breve tempo il Creatore Andrea Camilleri, il Metteur en Scene Alberto Sironi e lo scenografo Luciano Ricceri (ha creato icone, mica ha arredato stanze).
Non era facile insomma: un po’ perché Camilleri, pur con grandissima discrezione, era stato una presenza vigile sul quel suo personaggio affidato dai produttori a un attore che lui vent’anni fa non s’era nemmeno immaginato potesse incarnarlo ma che era stato suo allievo in Accademia; un po’ perché Sironi aveva creato un linguaggio filmico che era una citazione più letteraria che cinematografica, più metaforica che realista dove tutto era sul limite, sulla soglia, la tragedia non era mai tragedia tout court, il grottesco non era mai sovraccarico, la macchietta non diventava mai macchietta, la pasta al forno, pur passando dalla teglia al piatto, restava una categoria dello spirito e così il fritto di pesce o gli arancini (per dirla alla Camilleri, nella dizione giurgintana); un po’ perché Ricceri, quegli interni, li aveva ispirati sì a una provincia che evocava un tempo antico ma senza troppo uso di nostalgia, dalla vecchia madia riadattata ai copriletto di fiandra, dalle maioliche ai semplici soprammobili, quasi un lavoro per sottrazione e non per sovrappiù di memoria.
Stavolta, invece… Stavolta è come se tutto si fosse slargato già a partire dalla scrittura, amplificato nella caratterizzazione, esasperato nei personaggi ma appiattito nelle loro psicologie, sottolineato negli stessi arredi. Ognuno dei due nuovi episodi («Salvo amato, Livia mia» e «La rete di protezione») conteneva, come fossero satelliti della storia principale, almeno due o tre altre diverse storie sviluppate attraverso due o tre temi dissimili tra loro. Scatole cinesi ma senza possibilità di incastro. Che fosse la sempre gettonata omosessualità, pur in un non dichiarato rapporto omofilo tra la vittima e la sua collega d’ufficio, oppure il bullismo scolastico con una strana appendice di terrorismo via web, o ancora la parentesi boccaccesca del vicecommissario e della avvenente attrice straniera sul set arrivato in paese. Parentesi su parentesi, aperte e chiuse, riaperte e richiuse spesso con un unico escamotage narrativo, lo squillo di un cellulare e una voce che riconduce alla storia principale e poi ancora un altro squillo, un’altra voce e si ripassa alla storia secondaria, ma non necessariamente accessoria, quasi mai collegata. Francesco Bruni, Salvatore De Mola, Leonardo Marini e la fedelissima Valentina Alferj è come se giocassero d’accumulo, a una superfetazione narrativa, una matassa di cui si perde spesso il bandolo.
Lo stesso discorso vale per la regia che Luca Zingaretti ha voluto firmare in coppia con Alberto Sironi che ha frequentato il set già malato e poi è stato costretto ad abbandonarlo. Laddove Sironi giocava per ironica, ammiccante citazione della provincia siciliana, come a volersi sottrarre alle facili lusinghe di retorica, luogo comune, folclore che quell’universo ha offerto per decenni, qui c’era invece come la preoccupazione di evidenziare, sottolineare, circostanziare, anche qui una folla di personaggi principali e minori, una vocazione a far coro senza che un solista venisse fuori. Idem per le scene e l’arredamento che Simona Garotta ha creato sul vecchio impianto di Ricceri ma pure in questo caso si sentiva una tensione più all’arricchire che allo sbozzare.
Il problema del Montalbano “post” è stato quello di spremere da Camilleri e dal suo commissario oltre quanto fosse già stato spremuto dal 1999 in poi. Come se da quella polpa si potesse ricavare ancora succo, come se, affiancando alla storia principale due o tre parallele, fosse possibile puntellare un tema magari ritenuto più debole, o personaggi di caratura minore rispetto ad altri. Ma con Camilleri – che è narratore che va subito al sodo – questo trucco non riesce. Montalbano ci aveva regalato un mondo che ci aveva affascinato, in cui anche i siciliani s’erano riconosciuti a volte riconciliandosi con certi loro inguaribili difetti. Adesso è come se al mondo del commissario qualcuno avesse voluto dare gli estrogeni, lo avesse, per richiamo di Auditel, fatto ingrassare fino alla bulimia, all’obesità. E invece non sarebbe stato meglio salutarlo così, Montalbano, senza più scomodarlo per gli schermi televisivi, non sarebbe stato meglio non aggiungere altro al già detto e al già visto soprattutto se quest’altro doveva avere la vacua superbia dell’orpello?