Lo gran morbo che tutto si prende – il Coronavirus – è come dire “peste”, o “colera”. Ed è appunto un’epidemia che scaraventa l’attualità nelle pagine della più remota tra le storie.
Oggi che il calendario segna 2020 lo gran morbo ci fa coevi del tempo di quando c’erano almeno due papi intorno al Soglio – e così è, manco fosse un lapsus – e contee, ducati, città e stati sbarravano il passo ai viandanti temendone, nella mescolanza, e nella prossimità, il contagio. E così davvero è.
Ha sempre ben scavato la vecchia talpa della storia. I più colti tra le fragoline della cultura volgono il pensiero al Decameron, o ai Promessi Sposi visto l’assalto ai forni che c’è stato, e cioè i supermercati svuotati. Qualcuno, tra i situazionisti, sa bene trattarsi d’altro: ovvero un effetto Gieffe. È una percezione psichedelica derivata dalla strategia di comunicazione della Casa del Grande Fratello, alias Palazzo Chigi, dove sapientemente, dando il là, ognuno – ogni singola identità tra la cittadinanza – si ritrova “nominato”. Ma è un discorso che porta lontano, praticamente apre la strada al governo di salute pubblica.
Lo gran morbo, insomma, è il più ghiotto tra i pretesti. I più cinici, forgiati alla scuola della commedia, oltre a beneficiare della paura altrui – bus semivuoti, metropolitane deserte, traffico scorrevole – sfogliano la memoria nell’ambito meritatamente grottesco.
È un canone dell’arte, il morbo. I più vecchi se lo ricordano ma i più giovani tra i lettori vadano a guardarsi su YouTube la scena del corteggiamento tra l’avvenente Maria Grazia Buccella e Vittorio Gassman ne l’Armata Brancaleone, il film di Mario Monicelli. È la scena di prendimi e dammiti. “Godiamo e pecchiamo!”, dice l’aspirante crociato alla bella dama. Ella è vogliosa ma “no, su quel letto no!”, gli dice. “Perché?”, domanda il cavaliere indomito, “prendimi e dammiti” le ripete spogliandola con gli occhi. “No”, lo ferma lei: “Vi morì lo meo marito!”. Contrito, Gassman, s’informa: “Quando, di che malanno?”. La risposta di lei fa scappare lui a gambe levate: “Come di che malanno? Dello gran morbo che tutti ci prende, la peste!”.
Ogni epoca ha il suo morbo e il colera è il coronavirus dell’età a cavallo tra Ottocento e inizi Novecento. Ogni veleno ha il suo contravveleno e ‘U Contra di Nino Martoglio – opera di squillante comicità – mette in scena la diatriba tutta di ignoranza e pseudoscienza tra don Cocimu e don Procopio Ballaccheri nell’imperversare del colera presso le plebi meridionali. I due si dividono sulle cause del morbo. Uno, “ballista”, è convinto che sia il governo dell’Italia unita a diffondere la malattia per eliminare quel sovrappiù di bocche da sfamare. L’altro – un “colonnista” – ritiene che il morbo viaggi sulle correnti d’aria, tra starnuti e colpi di tosse.
I ragionamenti tra i due personaggi sono un mirabile canovaccio su cui sovrapporre la scaletta di un talk show. Ci si accalora nella discussione, quando – a un certo punto – don Procopio è preso da un violento mal di pancia. Nel quartiere – la Civita – tutti scambiano quel suo contorcersi per una botta di colera. Il dottor Anfuso gli somministra il laudano, un farmaco in uso al tempo, don Procopio ne trova immediatamente ristoro e però tutti, fermamente convinti del “morbo”, scambiano la medicina per una pozione miracolosa. Nessuno vuole saperne di vera scienza, tutto – e nulla è cambiato nella storia, figurarsi nella rappresentazione – volge sempre in commedia. Macabra. Ma pur sempre commedia.