Un attore mi manda poche righe che vorrebbe leggere per un “promo” teatrale. Vuole sapere che ne penso. Brevi ma sentite parole, bei concetti, in verità: si parla di ideologie, di rivoluzione, di rivolta delle coscienze. Non fanno una grinza, gli rispondo, insufflando alla fine un malefico «peccato che tu stia lavorando per un teatro istituzionale che di solito, come tutti i teatri istituzionali, è il regno del compromesso. D’altronde, sei come gli altri artisti di Palermo, quelli che da sempre s’affannano sul palcoscenico di questa città: teatranti di lotta e di governo». Come si diceva, un tempo, di quei partiti d’opposizione che, per opportunità politica o per occasionali esigenze di solidarietà nazionale, concorrevano alla fatica del “manovratore”.

Perché il governo – ovvero l’amministrazione cittadina – li lusinga, li coccola, li culla, gli canta ninna-nanne a questi artisti, per farne fiori all’occhiello o forza lavoro, firme da esibire per le luminarie delle grandi première da esportazione o docenti da impegnare nelle pubbliche scuole di arti sceniche o nei suoi progetti sociali, per inserirli periodicamente nei cartelloni delle sue sale – vetrina, insomma – per poi, fuori da lì, dal quel perimetro scintillante e vellutato dell’ufficialità, lasciarli al proprio destino, quasi sempre orfani sullo sterrato polveroso di quattro muri entro i quali recitare, di un capannone dentro il quale creare, di un tetto sotto cui provare gli spettacoli o insegnare. Declassati da grandi, insostituibili creatori di capidopera a cartonati da anticamera assessoriale, burocratica, dell’accordo per ripiego. Sacrificati sull’altare di una politica degli spazi inerme e inerte (magari fosse soltanto fantasiosamente dissennata, tanto da trasformare in discoteca o in salone delle feste private un Teatro Garibaldi dell’800 promesso senza budget un paio di mesi prima a Mimmo Cuticchio e alla Compagnia di Franco Scaldati),  uno dei denti cariati della città, la punta del disagio per il quale, traditi dal governo alle cui imprese essi stessi hanno pur concorso ricavandogliene lustro e consensi, i teatranti si tramutano nuovamente in fibrillanti simboli di lotta.

Emma Dante l’altra sera ha riaperto la sua Vicaria, lo spazio dove ha creato gran parte del suo teatro che è volato in tutta Italia e in mezza Europa. Soldi suoi, fatica sua e dei suoi collaboratori: è rimasta lì, riattrezzando il vecchio scantinato della Noce in cui da un quarto di secolo si sono formati attori e registi, sono venuti su spettacoli su spettacoli. Il Comune è rimasto sordo per anni alla richiesta di un luogo diverso che lei stessa avrebbe riadattato (così aveva garantito), lo aveva perfino trovato alla Fiera del Mediterraneo (poco lontano dal capannone dove opera ancora meritoriamente l’abusivo TMO, Teatro Mediterraneo Occupato, che di odore di governo non ne ha mai annusato e che oggi sembra agli sgoccioli di ogni residua autonomia finanziaria). Dicono avesse pretese eccessive, Emma. Eppure la Dante è la Dante, dirige anche l’istituzionalissima scuola di teatro dello Stabile (l’anno prossimo passerà la mano perché il triennio diventerà corso universitario), il Biondo è uno dei suoi coproduttori. È governissimo, altro che governo. Non le è servito nemmeno questo. Niente. Meglio la Vicaria, dunque, meno legacci, più libertà.

È comunale lo Spazio Franco (ai Cantieri culturali alla Zisa) con tanto di affitto annuale, ma c’è voluta la testardaggine di Giuseppe Provinzano per recuperare e attrezzare un quasi rudere (attingendo extramoenia, a fondi della Presidenza del Consiglio) oggi con i suoi 100 posti quasi sempre esauriti, c’è voluta la sua costanza per chiedere il capannone malmesso a Palazzo delle Aquile, per un “sì” arrivato al limite dello sfinimento. Sul laboratorio teatrale di Danisinni (creato all’interno del Museo Sociale fondato da Enzo Patti e Valentina Console, un tendone da circo tirato su in crowfounding e i locali degli assistenti sociali) silenzio assordante dal Comune e dal Biondo che pure, agli inizi, avevano dato una mano. Adesso per le trenta persone d’ogni età (dai 20 ai 70) che lo frequentano, Gigi Borruso che lo dirige e Stefania Blandenburgo, che lo coadiuva, lavorano quasi per volontariato e stanno allestendo un’«Antigone casa per casa».

Ultimo “di governo” (anche fuori cinta, ex direttore artistico a Gibellina, e più volte regista allo Stabile) ma attualmente “di lotta” è Claudio Collovà, un’esperienza quarantennale di palcoscenico, che con la sua Ouragan pare stia cercando dimora teatrale nei pressi di piazza Magione, assieme a un’altra collega di lungo corso, Miriam Palma.

Insomma, un po’ come in quella cara, irriverente, magmatica fine degli anni ’70 quando teatri piccoli e minimi accendevano le luci ogni sera a Palermo. Su via Roma, di contro, maestoso, si ergeva il Biondo che, sulla strada per trasformarsi in teatro pubblico, li avrebbe poco alla volta spazzati via, inglobandone le menti migliori. Ma allora, di lotta e di governo, era una formula che poteva ancora stupire.