Hic genuflectur. In queste due secche parole della liturgia gregoriana, si concentra tutto il rispetto e l’ammirazione per Ron Carter, un’eccellenza, una leggenda vivente della musica jazz; un artista che, dopo trentaquattro anni, è tornato ad esibirsi al Real Teatro Santa Cecilia di Palermo, in esclusiva europea per la Fondazione the Brass Group.
Una voce e una storia forti quelle di Ron Carter, che inizia con lo studio del violoncello e con i concerti da camera, abbandonati presto per le difficoltà di carattere razziale. Un po’ come succede al protagonista dello splendido “Green Book”, il film di Peter Farrelly vincitore di tre premi Oscar, ispirato alla storia vera di Don Shirley, compositore e pianista statunitense.
Da qui la decisione di dedicarsi allo studio del contrabbasso e al jazz, iniziando una carriera che lo porterà fino al suo reclutamento nel mitico quintetto degli anni sessanta di Miles Davis, assieme a Herbie Hancock, Tony Williams e Wayne Shorter. Per non parlare, poi, delle sue numerose collaborazioni, da James Brown ad Aretha Franklin, da Wynton Marsalis a Tom Jobim, Billy Joel o Santana; o delle migliaia di registrazioni che gli sono valse la realizzazione di un badge in cui è scritto “The world’s record holder of most recorded bassist: 2221”.
Con il suo “My personal Songbook” proposto al Santa Cecilia, Ron Carter è riuscito a strappare quasi centoventi minuti di sublime piacevolezza a una quotidianità che raramente vira verso il bello; ore di ricarica e di rigenerazione in cui si sono radunati, nell’anima di chi era presente a questo indimenticabile concerto, tutti i sentimenti e le sensazioni che solo una musica come il jazz sa regalare, in una rapsodia di emozioni travolgenti e coinvolgenti.
Una grande lezione di musica, quella impartita da Ron Carter ad appassionati ed estimatori. Due ore in cui gli spettatori sono stati trasportati in un angolo di paradiso immenso, infinito, senza tempo e senza spazio. Un petit paradis in cui risuonava e tambureggiava il battito di ogni nota, talvolta in modo esclusivo, con incantevoli assolo che hanno stregato il pubblico.
Sapientemente e brillantemente accompagnato dall’Orchestra Jazz Siciliana, diretta dal maestro Domenico Riina, legittimamente emozionato, ma sempre puntuale e appassionato, Ron Carter si è esibito in sofisticate creazioni e in un repertorio fatto di brani più veloci e ritmati come “Ah, Rio”, “Receipt, Please”, “Wait for the beep”, “Eight” e “For Toddlers”; o più sensuali e romantici, come “Little Waltz”.
Nella commedia teatrale “Il contrabasso” di Patrick Suskind il protagonista, parlando del suo strumento, dice che “se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso. Si può quasi dire che l’orchestra comincia a esistere soltanto quando c’è un contrabbasso. Ci sono orchestre senza primo violino, senza fiati, senza timpani e trombe, senza tutto. Ma non senza contrabbasso”.
Ma, mentre nella piece di Suskind chi parla è un contrabbassista frustrato e modestamente dotato che odia il suo strumento, quello che il pubblico del Santa Cecilia ha avuto il privilegio di ascoltare è un uomo innamorato del suo; un artista tra i più influenti e originali del jazz, dallo stile impeccabile, sanguigno e inarrivabile.
Difficile resistergli, e innamorarsi di lui è stato facile. Ogni emozione scaturita dalla sua musica è rimasta iscritta nel nostro cuore. I nostri sensi, l’udito, la vista, sono stati testimoni di ogni singolo suono, di ogni singolo tocco delle dita, lunghe e affusolate, delle sue mani che scorrevano nervose sulle corde, pizzicate con tocchi decisi e forti ma all’un tempo pieni di delicatezza e di eleganza. L’eleganza di un uomo, di un gentiluomo di quasi ottantatrè anni, la cui umiltà e semplicità, nonostante la grandezza del personaggio, sono state subito evidenti. Come nel gesto, semplice ma significativo, di regalare una rosa bianca a ciascuno degli orchestrali alla fine del concerto.
E’ il miracolo del jazz. Di quei suoni e di quelle armonie che accarezzano il mondo della musica e che moltiplicano all’infinito i sentimenti e la passione, i fremiti e i batticuore con i quali ogni artista ha riempito di vita e vitalità i suoi spartiti. What a wonderful world.