“Non solo non è possibile ribaltare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna, ma anzi in questa sede è stata ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli”. Lo scrivono i giudici della corte d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui il collegio ha assolto l’ex ministro Dc Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato. Oggi sono state pubblicate le motivazioni della sentenza che risale allo scorso 22 luglio. L’ex politico, assolto anche in primo grado, era sotto processo in uno stralcio del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’accusa – rappresentata dai sostituti pg Sergio Barbiera e Giuseppe Fici – aveva chiesto per l’ex ministro la condanna a 9 anni di reclusione.
Tuttavia, scrivono i giudici, “non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991”. E ancora, a proposito del ruolo di Mannino: “Se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa Nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé ‘salvifico’, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano. L’ipotesi del suo coinvolgimento nella fattispecie di cui in rubrica non solo, dunque, non è riscontrata, ma si appalesa, ancora una volta, illogica”.
Un altro elemento che emerge chiaro dalla sentenza di assoluzione di Mannino, e che smonta una delle principali accuse attorno a cui ruota il processo sulla Trattativa, riguarda Paolo Borsellino. L’ex magistrato, ucciso il 19 luglio 1992 nella strage di Via d’Amelio, era a conoscenza dei contatti in corso fra i vertici del Ros e Cosa Nostra, nel tentativo di accaparrarsi la collaborazione di Vito Ciancimino e spazzare via la stagione delle stragi. In prima linea, per i Ros, c’erano Mori e De Donno, condannati dalla Corte d’Assise, in primo grado, rispettivamente a 12 e 8 anni di reclusione. “Appare altamente probabile che gli alti ufficiali del Ros avessero informato di avere preso tale iniziativa anche il giudice Borsellino – che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere dì vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appalti’, nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione – giacché quando il giudice ne era stato informato dalla Dottoressa Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito né contrariato, rispondendo alla Dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui”.