Qual è la posologia esatta di ironia, sarcasmo, cinismo, cattiveria che uno “stand up comedian” deve assumere prima di andare in scena? «Non so se c’è una posologia esatta, di solito so quante gocce di Xanax devo buttar giù prima di prendere l’aereo e per arrivare a Palermo devo necessariamente prenderlo. Però posso dirle che anche su questa paura, nello spettacolo, mi prendo in giro con ferocia».
Saverio Raimondo, 35 anni, star italiana della “stand up comedy” di casa nostra, un successo clamoroso il suo «Satiro parlante» su Netflix ma anche le sue apparizioni a «Porta a porta» fortissimamente voluto da Bruno Vespa – e dunque sulla piattaforma digitale e nella tv generalista – è di scena sabato sera al Camus di Palermo.
Raimondo, tracciamo l’identikit dello “stand up comedian”: che razza di attore è?
«È un comico, un monologhista ma è soprattutto se stesso sulla scena, senza maschere, nudo, a farsi beffe delle sue contraddizioni, delle sue debolezze, delle sue nevrosi. Uno che si sputtana, insomma, e più è senza veli lo sputtanamento più funziona il gioco teatrale col pubblico».
Siete in tanti ormai, sul web e sulle tv non tradizionali.
«In tv bisogna esporsi facendo molta attenzione ai progetti, è sempre un meccanismo commerciale nonostante l’autonomia che possono garantirti certe sigle. Il web ormai è un tale mare magnum nel quale scattano anche gli algoritmi della censura, a volte è più conformista della stessa tv. In teatro il contesto è diverso, la gente ti sceglie, puoi permetterti di essere davvero sarcastico, cattivo, feroce».
Non è un sovraccarico in questa società già incattivita di per sè?
«Tutti dicono che il nostro sia un mondo dove la rabbia oggi predomina. Ma se in scena questa rabbia la mostri senza remore la riconosci e te ne liberi al tempo stesso, incanali le pulsioni negative, se il marcio che c’è in ognuno di noi lo tiri fuori additandolo, lo rendi inoffensivo, divertente».
Spegne più risate il politically correct o l’uncorrect a tutti i costi?
«Le spengono entrambi. Il primo è spesso uno strumento di autocensura, una cortina di ipocrisia che s’ammanta di equalità, il secondo rischia di inflazionare l’umorismo stesso, la scorrettezza fine a se stessa sbaglia la mira, non centra il bersaglio».
Siete figli di Beppe Grillo, l’ex comico, o di Daniele Luttazzi, l’eretico epurato?
«Siamo più orfani del secondo, di quella stagione abrasiva, e comunque il riferimento è la grande “stand up comedy” americana, quella dei Lenny Bruce e dei Woody Allen».
Su cosa è lecito scherzare e su cosa non lo è?
«Ciò che non è lecito è divertente, la satira va in cerca dei limiti proprio per scavalcarli con dispetto. E i limiti non sono più i sensi di colpa dettati dalla nostra matrice cattolica. Oggi nessuno crede in Dio perché tutti credono di essere Dio. Siamo diventati supponenti e di una permalosità sconfinata, ci prendiamo troppo sul serio. Basta soltanto affacciarsi sui social».
Vizi privati o pubbliche virtù? Qual è il bersaglio?
«Oggi ci sono più vizi pubblici e virtù private. La realtà ha deformato i propri contorni. Pensi a Trump presidente degli Stati Uniti, un ossimoro. È la realtà che esagera non la comicità. E comunque lo ripeto: nel mirino della “stand up” c’è lo stesso attore sul palco».
Quanta scrittura e quanta improvvisazione?
«La scrittura è fondamentale, per raccogliere idee, spunti, è un gioco di ingegneria, di calcoli. Poi sul palco non sei più l’attore che recita un copione, sei un musicista jazz, ti lanci in una jam session».
Confessi, Raimondo: nonostante la cattiveria, lei un cuore ce l’ha.
«Certo che ce l’ho: non si può essere cattivi senza avere un cuore. Faccio anche battute tremende su ciò che amo. La comicità è un cortocircuito tra emozione e cervello. Come ogni essere umano, poi, sono così ridicolo da provare verso me stesso una tenerezza infinita».