Dietro la patina dei residui attivi, e dei bilanci tarocchi che dal ’94 affliggono la Sicilia, si cela la “convenienza” o scarsa competenza di tutti i governi regionali, compreso quello di Nello Musumeci. Tutti più o meno complici di un disastro annunciato. Anche se nessuno, di fronte allo specchio, è stato in grado di ammettere le proprie colpe. Musumeci, ad esempio, si è tirato fuori, vantandosi di fronte a Dio e ai suoi figli, di non essere corresponsabile di un simile sfacelo. Eppure, come Buttanissima ha già provato a documentare, le responsabilità di questa amministrazione regionale, se non direttamente riconducibili al governatore, lo riguardano molto da vicino. A chi gli imputava che numerosi rappresentanti della propria giunta fossero coinvolti nei governi precedenti, contro i quali Musumeci ha puntato il dito, il presidente della Regione siciliana ha risposto che non è vero. Che soltanto un paio – Gaetano Armao e Roberto Lagalla – avessero avuto delle esperienze di governo, e che tutti gli altri fossero dei principianti.
Ma letta in questo modo, appare una difesa qualunquista. Perché in realtà, all’intero del governo Musumeci, c’è un grande convitato di pietra che, forse a sua insaputa, dirige il traffico di palazzo d’Orleans e delle maggiori questioni (economiche, va da sé) che riguardano la Sicilia: si chiama Raffaele Lombardo. E’ quasi superfluo ribadire che l’ex governatore siciliano (dal 2008 al 2012) ormai è ai margini della scena. Infatti, partecipa di rado ad appuntamenti elettorali – l’ultima volta si è visto a una convention di Saverio Romano, nello scorso maggio – ed è invischiato in drammatiche questioni giudiziarie che ne hanno macchiato e intaccato la carriera politica, fino a farlo dimettere da presidente della Regione con qualche mese d’anticipo sulla scadenza della legislatura. Prima, però, ha dato vita a quattro differenti esecutivi, spaccato l’allora Popolo delle Libertà, governato insieme ai “nemici” del Pd, prodotto politiche rivedibili. Ed è finito per guadagnarsi l’attenzione invadente della Procura di Catania, che lo ha accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
La stessa accusa da cui Lombardo dovrà difendersi nei prossimi mesi, durante la seconda edizione di un processo che la Corte di Cassazione ha annullato dopo la sentenza d’appello del marzo 2017. I giudici, che in primo grado lo avevano condannato a 6 anni e 8 mesi di carcere, ridussero la pena a due anni, derubricando il concorso esterno a “semplice” corruzione elettorale aggravata da metodo mafioso. Ma era solo un galleggiare. Lombardo, in attesa di chiudere il capitolo legato ai procedimenti giudiziari, ha preferito schivare la politica, prenderla alla larga.
Ma – e qui torniamo dritti al punto – il legame col governo Musumeci non è dato soltanto, come può apparire superficialmente, dalla presenza del suo avvocato di fiducia, Antonio Scavone, nella giunta regionale (tra l’altro in un assessorato “pesante” come quello alla Famiglia e al Lavoro). Tanto meno dall’ottima rappresentanza all’Ars (dove c’è il gruppo dei Popolari e Autonomisti) e nel sottogoverno. L’ingombrante presenza di Lombardo, sebbene i rapporti fra i due si siano allentati da tempo, si palesa alla destra di Musumeci, dove siede l’assessore all’Economia Gaetano Armao.
Armao è un’interpretazione plastica del caos degli anni ’10. Non solo per aver fatto parte del quarto governo Lombardo, il più duraturo, ma anche per aver guidato l’assessorato all’Economia con la stessa approssimazione di oggi (è stato Armao a suggerire che il caos finanziario deriva dagli ultimi 25 anni di gestione). E soprattutto per aver importato nei palazzi della Regione la medesima voglia di arrivismo politico, di spregiudicatezza amministrativa, di competenza a corrente alternata (tendente alla goffaggine). Una scuola di pensiero e di comportamento, ispirata al suo “padre politico”, che prima di dargli l’Economia, lo aveva nominato assessore alla Presidenza e ai Beni Culturali.
Lombardo riuscì a fare e disfare in breve tempo: cambiò partiti e alleati, fu autore di scelte che la storia giudicherà dissennate (in quel periodo, ad esempio, proliferarono le discariche dei privati) e dovette fermarsi solo di fronte alla giustizia che aveva già macellato il suo predecessore (Totò Cuffaro). Ma non se n’è mai andato del tutto: prima candidando il figlio, e facendolo eleggere (sono stati condannati entrambi, lo scorso luglio, a un anno di reclusione per reato elettorale); poi affidando le chiavi dell’Mpa a una federazione coi popolari, e marcando nuovamente il territorio in Assemblea.
Come Lombardo, anche Armao ha cambiato partiti e alleati. E’ uscito dagli autonomisti per diventare autonomo, si è messo a capo degli indignados per ammaliare Berlusconi; non appena c’è riuscito, ha fatto il suo ingresso in Forza Italia, che l’ha fatto diventare vice-presidente della Regione e “ambasciatore all’estero”. Ed ora scalcia per attirarsi le simpatie della Lega. Ma entrando nel merito della sua azione amministrativa, Armao non è parso in grado di gestire il Bilancio della Regione (né prima, né adesso), tanto che la Corte dei Conti ha ridotto in brandelli tutti i buoni propositi di questa estate, tacciando il governo di approssimazione e inefficienza. Questo governo. Il governo di Nello Musumeci, di cui Armao – complice di un disastro decennale, e interprete del “lombardismo” – è un pilastro. E’ proprio lui, a testimonianza di un fil rouge che unisce il governo di oggi con quello dell’altro ieri, quell’assessore che non riesce a spiegare com’è possibile far spendere alla Regione 110 milioni di euro per un censimento del patrimonio immobiliare che per dieci anni è stato tenuto sotto chiave, ed oggi risulta inutile e inutilizzabile. Soldi buttati, di cui nessuno ha mai risposto.
Ecco perché questo convitato di pietra, più nella filosofia che nella sostanza, continua a pervadere il senso delle scelte della politica siciliana. E si riflette, vuoi o non vuoi, sui cavalli di Ambelia, la stazione di monta a cui Musumeci ha destinato dieci milioni di euro a scopo di riqualificazione e di cui si occupa con fierezza. Perché “non è mica un abuso” e “cosa ci posso fare se sorge a pochi chilometri dalla mia Militello?”. Nulla, per carità. Ma anche Lombardo, che un cavallo l’ha venduto nel 2015 perché non poteva più occuparsene, vive nel raggio di 40 chilometri, tra la sua Grammichele e Ramacca, con viaggi sempre meno sporadici a Catania, dove entrambi – Musumeci e Lombardo – sono stati presidenti di provincia.
Tra i punti di contatto c’è Armao, e c’è questo pesante disavanzo. I controlli a maglie larghe degli anni scorsi, prima dell’entrata in vigore del decreto 118 e delle politiche di rigore della magistratura contabile, ha facilitato il “taroccamento” – talvolta superficiale, altre involontario – dei conti della Regione. Pasticci su pasticci, proseguiti con Crocetta, di cui anche Musumeci era al corrente dall’inizio. Non basta, evidentemente, per spezzare i fili della storia. Armao, come i cavalli di Ambelia, sono irrinunciabili. Solo che Lombardo, burbero nei modi e incisivo negli insegnamenti, agli equini non ha mai fatto scuola.