“L’esame comparato dai principali saldi risultanti dai documenti costituenti il ciclo del Bilancio 2018 della Regione siciliana, dimostra l’inefficacia delle politiche pubbliche rispetto ai vincoli di riduzione del deficit e del disavanzo di amministrazione”. E ancora: “Risulta chiara l’inconsistenza della manovra finanziaria”. In altre parole, “la Regione non è stata in grado di raggiungere nemmeno gli obiettivi “minimi” che essa stessa si era data con la legge di stabilità”. Questo è quanto ha determinato la Corte dei Conti, nelle sue conclusioni, durante il giudizio di parifica del rendiconto 2018 di venerdì scorso.
Quello che ha “condannato” la Regione a recuperare oltre un miliardo di disavanzo nell’esercizio 2019, e uno più avanti, o comunque entro la fine della legislatura. Quello per cui il presidente della Regione Nello Musumeci, nonostante le critiche messe nero su bianco dai giudici contabili, si proclama “innocente”: “Mi conforta e mi sostiene la serena consapevolezza di sapere, davanti ai miei figli, davanti a Dio e al popolo siciliano, di non essere mai stato né direttamente né indirettamente corresponsabile di una storia di disastri finanziari che almeno negli ultimi 25 anni hanno caratterizzato la storia di questo ente regionale”, ha spiegato il governatore. Lavandosene le mani.
Eppure la sentenza della Corte dei Conti parla chiaro. Parla di “manovra approssimativa”, di “Regione non in grado di raggiungere gli obiettivi minimi”. E addirittura, in sede di pre-adunanza pubblica, il 5 dicembre, il procuratore generale Aronica spiegava che “a più riprese questa sezione ha tentato di ottenere riscontro da parte dell’amministrazione sulla quantificazione dei fondi regionali, non ottenendo alcuna risposta”. E che “il peggioramento del disavanzo indica, non solo che non si è proceduto ad un efficace recupero delle quote applicate all’esercizio 2017, ma che non sono state recuperate neanche le quote applicate all’esercizio 2018”.
Da qui a ritenersi immuni da responsabilità ce ne passa. Eppure c’è un elemento che tiene insieme Musumeci e il suo responsabile all’Economia, l’assessore Gaetano Armao: scaricare tutte le colpe sul passato. Lo ha fatto anche Armao, commentando a caldo il verdetto dalla Corte: “Nessun buco di bilancio – ha spiegato il vicepresidente sui social – ma solo un disavanzo, che viene da lontano, in alcuni casi dal 1994, e di cui oggi ci si presenta il conto”. Le stesse argomentazioni di Musumeci durante il suo intervento all’istituto di Storia Patria, di fronte ai magistrati.
Ma sia l’uno che altro dimenticano, o forse fingono di dimenticare, come uno degli assessori ad aver gestito i conti dal ’94 in poi, è stato proprio il professor Gaetano Armao, che nell’ottobre 2010, dopo aver bazzicato i corridoi di palazzo d’Orleans prima come assessore alla Presidenza e poi come responsabile dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, viene nominato al Bilancio da Raffaele Lombardo, subentrando a Michele Cimino. C’è un filo diretto, direttissimo, tra l’assessore di oggi e l’assessore di ieri: è lo stesso. Armao rimane all’Economia fino al termine della legislatura, che per Lombardo sfortunatamente si chiude in anticipo rispetto alla scadenza naturale (luglio 2012).
Sono anni farciti da investimenti fallimentari: lo spreco più pacchiano, senza timore di smentita, costa 110 milioni di euro e riguarda un censimento del patrimonio immobiliare dell’ente, pagato estero su estero a un gruppo di avventurieri – titolari al 25% di Sicilia Patrimonio Immobiliare – che smistano i guadagni nei paradisi fiscali del Lussemburgo. E in questo scenario si inserisce la creazione di numerose partecipate (alcune in liquidazione, come la stessa Spi) che ancora oggi gravano sulle casse regionali; le assunzioni a pioggia di gruppi di precari, come gli ex Pip di Palermo; e i contributi molto generosi elargiti con l’ex Tabella H, oggi decapitata dalle esigenze di spending review.
Ma è anche il periodo della “finanza creativa”. Per arginarla, il 23 giugno 2011 vede la luce il decreto legislativo 118, denominato “disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di Bilancio delle regioni”. Una norma che prevede l’accantonamento di miliardi – oggi la Corte dei Conti ne pretende il rispetto in modo puntuale, quasi inflessibile – per coprire le poste “incerte” iscritte a Bilancio. Come quelle che riguardano, ad esempio, le entrate da vendite di immobili, che puntualmente non vanno in porto. O altre voci più o meno fittizie, da riequilibrare con la realtà. E fu negli anni di Armao assessore all’Economia, che Roma propose alla Sicilia di diventare ente sperimentale per l’applicazione del decreto 118 (con tanto di assistenza tecnica), ma la Regione recepì la norma soltanto nel 2015, quando un clamoroso errore del governo Crocetta consentì di spalmare solo una parte dell’enorme disavanzo da cinque miliardi venuto fuori da un riaccertamento straordinario. Oggi ce ne sono rimasti sul groppone due, e derivano dalla gestione Crocetta-Baccei.
Ma anche dal 2010 al 2012, come emerge dalle dichiarazioni di Armao e Musumeci, era prassi assicurare ai Bilanci poste fantasiose e senza riscontro. Anche se nessuno, fino a ieri, si è sognato di denunciarlo pubblicamente. Finché non è intervenuta la legge. Qui entrano in ballo le responsabilità del presidente della Regione, che non solo ha deciso di nominare Armao come suo vice, sulla base delle indicazioni (legittime) di Berlusconi e di Forza Italia, ma anche di affidargli l’Economia. Un mancato segnale di rottura rispetto alle gestioni scriteriate del passato, le stesse evocate oggi da Musumeci.
La sua giunta e la sua maggioranza, d’altronde, sono costellati di presenze che rimandano ai governi Cuffaro e Lombardo. “Contare che prima c’era solo il marcio e che adesso è iniziata la “bonifica” non è coerente con le scelte di questa amministrazione anche nei nomi” fa notare Accursio Sabella, direttore di Live Sicilia, nel suo editoriale. “Come si fa a dire che quel passato è radice d’ogni male, se poi da quel passato si è deciso di prendere i propri compagni di avventura politica e anche alcuni uomini chiave?”. Il riferimento è all’assessore Lagalla, un tempo alla Sanità e oggi all’Istruzione. Ad Armao. Ai presidenti di società regionali che oggi presidiano il sottogoverno, a membri dell’esecutivo Crocetta oggi sparsi per gli uffici più importanti. Presenza mai rinnegate, ci mancherebbe, e tanto meno esposte al pubblico ludibrio della politica e della piazza. E oggi addirittura difese, come nel caso di Armao. Che però non vanta più gli stessi crediti: tanto che negli ultimi mesi Musumeci ha “commissariato” i suoi dipartimenti, affidando l’incarico di revisionare i conti della Regione a un professionista esterno (l’ex assessore alle Finanze del comune di Caltagirone, Massimo Giaconia) e a una ditta di consulenza – la Kibernetes srl – che sta passando al setaccio i Bilanci, compreso l’ultimo, per offrire una panoramica finalmente chiara.
Questa attività è sintomatica della percezione dei risultati di Armao e dei suoi uffici, costretti a lavorare sempre più spesso a motori spenti. Il blocco delle assunzioni imposto dalla Regione, e il mancato ricambio generazionale, ha fatto scadere qualità e competenze all’interno dell’ufficio di ragioneria e lo stesso assessore, secondo fonti accreditate, svolge più un ruolo di rappresentanza che non di sostanza, occupandosi poco (e male) di contabilità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la “correzioni” promesse dal ragioniere generale Giovanni Bologna si tradurranno in tagli per numerose categorie di lavoratori, da subito. Ma anche l’orizzonte è cupo.
All’indomani del fallimento conclamato dalla Corte dei Conti, l’assessore all’Economia è tornato a chiedere l’attuazione di un piano-B “che eviti ulteriori tagli, cioè una norma nazionale, da inserire nella Legge di Stabilità in discussione al Senato, che ci consente di spalmare questo disavanzo in più anni” come riportato da Repubblica. Ma è un tentativo che lo stesso Armao ha già fatto nei mesi scorsi: tampinando in lungo e in largo l’ex Ministro delle Finanze, Giovanni Tria, per ottenere la dilazione di questo maggiore disavanzo prima in trent’anni e poi in dieci. Ma entrambe le volte ha fallito, e l’accordo si è sgretolato con la caduta del primo governo Conte. Testimoniando la scarsa considerazione di cui gode l’assessore palermitano in sede di “disputa”. Bisognerà ripartire dalla conferenza Stato-Regioni, e fra l’altro al cospetto di un ministro del Pd, Andrea Gualtieri. Ma è un tentativo che nasce monco, anche in relazione a una sentenza della Consulta, prospettata dalla Corte dei Conti, che impone il rispetto dei vincoli di equità intergenerazionale. Cioè: se sono i padri a commettere gli errori, non è giusto farli pagare ai figli.
Ma qui è la Sicilia tutta, padri e figli, a essere flagellata da queste mancanze croniche di cui nessuno vuole rispondere. “Un funerale di leadership, un olocausto del senso di responsabilità” lo ha definito il giornalista Gery Palazzotto, nel fondo di Repubblica. Eppure, per citare Musumeci, “si tratta di una patologia della quale dobbiamo farci carico, perché c’è la continuità amministrativa”. Già, ma quando? E soprattutto, con chi?