Dal dileggio alla piccola iconografia il passo è meno lungo di quel che appaia, dalla storia di una passione che vince un destino già segnato e lo fa deviare dalla sua strada, da un progetto accarezzato da una vita e che sembra utopia fino alla sua realizzazione, il percorso è forse ancora più breve. Colto dalla fascinazione per quel personaggio che è Vito Colomba, il regista Rosario Neri è tornato, vent’anni dopo, a Malopasso, nei luoghi in cui il cavatore-regista di Custonaci girò in sette anni, dalla fine degli ’80 alla prima metà dei ’90, il western «Quattro carogne a Malopasso»: si intitola «Colomba Legend», il film di Neri e siccome lui non voleva fare una biografia-agiografia ha comunque reso omaggio all’operaio-cinefilo con una sorta di sequel dell’opera prima e unica di Colomba.
È Neri che parla del suo film che – prodotto dalla Lorebea di Maurizio Macelloni – verrà presentato in anteprima questa sera alla Multisala Aurora di Palermo: «Diciamo la verità: l’utopia di Vito Colomba – e con essa il film che da questa è stato generato – fu oggetto in quegli anni della curiosità morbosa e irridente della stampa, della sufficienza dei critici cinematografici ai quali pure Colomba con la sua tenacia riuscì a far vedere la sua opera e perfino lo scherno della Gialappa’s che fece di lui un personaggio nelle sue trasmissioni Mediaset creandogli la rubrica delle “Lezioni di regia” e le ospitate televisive che seguirono a ruota, furono, comunque, il segno di un atteggiamento culturale sprezzante. Eppure la storia di questo operaio appassionato di cinema che con scarsissimi mezzi propri, l’unica risorsa dei suoi pochi soldi e la complicità di un gruppo di amici riesce a realizzare il suo lungometraggio, è un paradigma bellissimo per chiunque sia patito della Settima Arte».
La storia di Colomba è quella di un cavatore di marmo nelle montagne di Custonaci, nel Trapanese. Un operaio appassionato di cinema, il lenzuolo bianco in fondo a una sala è la sua magnifica ossessione. Malopasso è a un tiro di schioppo da lì, è un luogo dove tra le due guerre è stato costruito un bunker, teatro – favoleggiano in paese – di crimini d’ogni sorta. È da questo mito di piccola provincia che nasce «Quattro carogne a Malopasso». Colomba si porta appresso sul lavoro un taccuino e, ad ogni idea che gli frulla in testa, lascia le pietre, tira fuori biro e fogli e prende appunti tanto che il capocantiere si lamenta sempre più di lui. Fino a che – a fine anni ’80 – si fa prestare una telecamera amatoriale, raduna un gruppo di amici e volontari e comincia a girare il suo film. I ciak si battono nel weekend («dovevo lavorare, altrimenti non avrei potuto campare»), spesso le riprese si fermano per mesi e poi, a volte il vento, altre la pioggia… Sette anni, un regista vero ci avrebbe fatto un kolossal, quasi due. Ma alla fine il film è pronto. Colomba si sottopone al fuoco incrociato dei paesani, degli amici, dei giornalisti, dei critici. Ma non teme nulla, nemmeno l’ironia (messa in conto) della Gialappa’s: «Quando mi chiamarono, anzi, toccai il cielo con un dito: mi avrebbero massacrato, d’accordo, ma il mio lavoro sarebbe stato riconosciuto, avrei avuto popolarità». Molti anni dopo perfino «Stracult», il programma Rai3 di Marco Giusti, si ricorda di «Quattro carogne a Malopasso» e gli viene riconosciuto un premio, proclamato quasi un B-movie.
Adesso questo omaggio di Rosario Neri che è un sequel, per l’appunto, dove ai vecchi protagonisti si sono sostituiti i figli, sempre sullo sfondo di cavalli, colt e cappelli, fazzoletti legati al collo e barbe incolte. Banditi e sceriffi, conti da saldare, vendette per pareggiare oltraggi. D’altronde, tra il Monte Cofano e il canyon del vecchio West di frontiera, che differenza c’è? Chissà se poco lontano dalla Grotte Mangiapane, c’è un piccolo villaggio, il saloon, la bella e il pianista e uno sceriffo che, magari, lavora di malavoglia.